martedì 31 gennaio 2017

Megera

Mia madre è una balena. La sua casa è il ventre di una balena che apre le fauci e lascia entrare tutto l'oceano di cose che ci sono. Con calma onnivora le lascia entrare. La sua placida voracità non distingue tra armadi di arte povera valtellinese, libri di auto aiuto, cibi scaduti, coperte di pile, integratori miracolosi, il mahabarata, madonne laccate, una scultura raku, cadaveri di scarafaggi, spazzolini sfibrati, specchi di legno esotici, rosari fosforescenti, teiere sbeccate, bicchiere retrattili da pic-nic, pennette usb, occhiali senza bacchetta, occhiali senza lenti, merletti stinti, merletti splendenti, fasce idromassaggio della televendita, i miei disegni, i suoi appunti meticolosi e caotici, i miei topolini imbrattati di cibo, la collezione dei manuali della giovane ragazza per bene, i manuali per il giovane manager rampante, quadri interamente ricamati al punto croce, le tarme, panetti asciutti di lucido per le scarpe con cui mi lucidavo di nero la faccia da piccola, una busta da tre chili di proteina in polvere, un salvagente sgonfio, bauli senza fondo, un piccolo sapone alla rosa in cui si intravedono i petali incisi nella polpa, ma ormai logori, fili di cotone di tanti colori che spesso collegano le cose tra di loro, come fili d'Arianna senza nessuna Arianna a reggerli all'altro capo. 

Mia madre è una balena che comunica a distanza di oceani. Non ha tempo per le pulizie. Non ne ha neanche voglia. Anzi, diciamola tutta, non saprebbe da dove cominciare, resterebbe a fissare gli oggetti, a vederne il potenziale, a immaginarne gli usi, le destinazioni, quel foulard con i fiori stampati potrebbe servire a mia figlia, quella penna scarica un giorno potrà riprendersi, quel pupazzo di paglia intrecciata potrà rendere felice qualcuno, anche e forse proprio grazie alla sua innegabile bruttezza. 

Si sentono al sicuro le cose, a casa di mia madre, nel ventre di balena, che nulla digerisce e tutto accoglie. (Come ha accolto anche me, ultima dei suoi tanti figli, arrivata molto tardi, più grossa di una balena).

Qualche volta sento mia madre girare agitata per casa sibilando a bassa voce, con la gracile aggressività che i suoi lunghi anni di collegio dalle suore le concedono, "sarà stata quella megera".
Quella megera è una piccola donna filippina, che si muove con la rapidità dei piccoli e ride con l'irriverenza dei monelli, mentre ripeta un monotono "certo segnora, va bene segnora": mia madre un Golia in collant, lei un piccolo Davide, con uno straccio al posto della fionda. A Milano si può sentire tutto lo spettro di atteggiamenti possibili per battezzare queste persone che si prendono cura degli interni milanesi, sobri e solitari: c'è chi non ha problemi a parlare "del suo filippino", anche se filippino non è, fino a quelle che imparano la traslitterazione corretta del nome dal filippino per paura di passare da sporche colonialiste. Per mia madre, questa donna che piega in modo miracoloso gli asciugamani è semplicemente "la megera". 

La megera con i suoi piccoli passi svelti prova, cumulo dopo cumulo, ogni tanto lasciandosi scappare un "segnora, segnora" di rimprovero, a disincastrare le cose, riportare una funzione, non è stolta come me, che propongo esecuzioni di massa trovando un disperato rifiuto, un irremovibile attaccamento alle riviste del 1993. Piuttosto impila le decine di bloc-notes che si accumulano in cucina, attirando più gocce di miele che appunti sensati, affianca le bottiglie, allinea i flaconi di compresse, spolverando l'ovviamente inutile, rispettando il ventre della balena. Ma l'ordine della megera gioca qualche tranello a mia madre, che invece compone delle torri di babele, dei millefoglie composti da equilibri di progetti ordinati in cartellette e fogli stropicciati, suddivisi magari da una bottiglietta di crodino e una telefonata arrivata in quel momento, mia madre gioca sul confine tra materiale e immateriale, memoria e inconscio collettivo. 

Quando sibila "è stata la megera" molto spesso l'unica cosa che può aver fatto la megera è stato di appoggiare un libro su un altro libro, specialmente sul tavolino in cucina e il tavolino in sala, i punti nevralgici, la corteccia pre-frontale della casa, preposta alla gestione della memoria a breve termine, gli appuntamenti- soprattutto quelli importantissimi che sembrano sempre sul punto di perdersi -, i concerti gratuiti, gli indirizzi di persone appena conosciute.  
La megera è il trickster, il Pinocchio con cui lotta da sempre mia madre, la mia balena buona. 

Megera viene dal greco Megaira, da megairo, invidio, sono geloso, in cui si legge anche l'idea di grande in megas: la megera era una delle furie principale della mitologia greca. Una piccola donna, che con la sua mano vispa e pulita tiene in scacco la mia grande mamma balena che le concede un solletico settimanale, una grattata di ventre, che alle volte graffia un pochino. 








 

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