martedì 28 ottobre 2014

CATTIVA

Eravamo in una posizione di equilibrio un po' complessa e uno di noi è caduto di lato, dopo aver tentato penosamente di tenersi in equilibrio. Nella luce incerta della sala e con gli occhi velati di sudore mi pare di aver visto Adam, il mio sublime istruttore di pilates, ridacchiare. Da Adam non mi sarei aspettato niente di meno. E' cattivo. 
E' figlio di Ursula, nipote di Crudelia e cugino di Malefica. Ha ridacchiato compiaciuto, come se stesse aspettando che accadesse. La colonna sonora di Rosemary's Baby nel frattempo allietava stiramenti e flessioni. Sebbene io adori Adam una parte di me ha provato tristezza, come sempre provo tristezza quando vedo qualcuno godere per le difficoltà altrui. E' una delle cose che non sopporto, insieme a 1) non frequentarla più e non sentirla più 2) lavare i piatti dopo cena e 3) la schiavitù nell'America del Nord.

Mi sono ricordata della grazia dei cattivi. I cattivi sanno sempre dove stare, hanno direzione chiara, così precisa. Mi chiedo come facciano i cattivi a sapere sempre così precisamente dove collocarsi. A prendere la mira con così tanta prontezza. Io mi ricordo che da piccola non avevo tempo di essere cattiva, c'erano troppe cose da fare. 

orange-is-the-new-black-canceled-hoax-laura-prepon-taylor-schilling-netflix.jpgL'etimo di cattivo ha allargato, anzi stravolto, la mia prospettiva: cattivo proviene dal latino CAPTIVUS, cioè prigioniero in guerra, da CAPTARE, impadronirsi, che a sua volta viene da CAPERE, prendere, con il radicale greco KAPE che indica un oggetto su cui si ha presa, un manico o un ansa. 

In antichità, quindi, il cattivo era colui che in guerra si arrendeva al nemico come schiavo e che per estensione è diventato sinonimo di malvagio, abietto, pervertito, sgradito, disgustoso. Nella mia solida formazione catto-disneyana, il cattivo era colui che nasceva in quel modo, era già cattivo, arrivava cantando progetti cattivissimi.  Ma la parola cattivo si riferisce invece a un passato di prigioniero, a qualcuno che per sventura o per danno subìto si ritrova prigioniero morale di un risentimento che lo paralizza, obbligandolo a guardare ostinatamente il proprio nemico. (Nei casi più gravi è cattivo chi vede solo nemici). Sta quindi fermo in un punto e non esplora altri orizzonti che l'altrui debolezza. Ha quindi visione e controllo più stretto del buono che invece corre libero verso orizzonti che sempre lo abbagliano. 

Molto interessante è anche l'origine di EVIL, inglese per malvagio, rintracciabile nel greco hypo, nel sanscrito upa e nell'inglese up, ad indicare quindi un superamento dei limiti, uno sconfinamento, simile a quello che fa Caino quando uccide il fratello Abele per superare i confini dell'obbedienza.

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Tu: eh sì, qua si fanno le quattro tutte le notti.
Io: hey, ma devi studiare! E poi non troppi amanti!!
Tu: no, nessuno.
Io: non ti credo.
Tu: no, nessuno, per ora.

Tu cattiva, tu molto cattiva.

lunedì 20 ottobre 2014

PAZIENTE

Ci sono delle immagini che compaiono come cartoline quando penso alla parola paziente. Spesso è una donna vestita di nero, da testa a piedi, seduta con le braccia conserte su una sedia di legno appoggiata al muro di una casa. E altre associazioni tutte spesso legate al dolore. Pazienza è qualcosa che tiro calci all'aria ogni volta che la sento. Pazienza è il rimprovero tatuato sulla nuca da mio padre, forse l'unica forma di rimprovero. Ma è un'associazione etimologica drogata dal mio contesto, dal mio immaginario, dalle mie esperienze. C'è una lettura ampia di pazienza che non ho mai avuto la pazienza di esplorare. 
Ok, ora saltiamo indietro di quindici anni. (cioè dove sono rimasta nel mio sviluppo emotivo) qualcuno - un professore? una professoressa? - non so, qualcuno dice: ragazzi l'etimologia di pazzo è bellissima, è qualcuno che sente troppo. (Quel momento fatale ha determinato conseguenze disastrose e giustificato molti gesti che ancora mi imbarazzano).
Sente troppo perchè deriva dal deponente PATIOR in latino soffrire, dallo stesso radicale di pathein, in greco---- sentire, da dove deriva paziente.
Questo sentire in greco è specifico: è sentire un'intensa emozione. La nostra lettura di intensa emozione è stata nel tempo impacchettata nel dolore, questo impaziente vizio occidentale di far coincidere il senso di una parola con il suo acme esperienziale. Dove pathein conteneva universi di "sentire": conteneva quella struggente sensazione di impotenza che mi stringeva il cuore alla sera aspettando la mamma, quel gioco che il tempo faceva con me (tornerà?) e tornava sempre, ma alcuni minuti erano fortissimi.
Pathein contiene quel formicolìo di me seduta al banco che smànio per qualcos'altro che vorrei fare e non so cosa sia. Pathein contiene il tempo tra un messaggio e l'altro, quello in cui penso a lei, anticipo, immagino, sento. Impaziente è saltare i passaggi, è "dammelo subito", "quando arriva?", "non funziona, cazzo".

Invece è così che mi suggerisce di essere il mondo: paziente, ma non perchè attendo, piuttosto perchè sento.
Paziente è quindi colui che dal medico, con il tocco del medico, sente di nuovo il proprio corpo, riprende l'intensa sensazione di avere un corpo, forse proprio perchè malato. Il dolore del corpo essendo una specie di richiamo. "Hey! Mi senti? Sono qui, sono il tuo corpo!"

Paziente come sentire ogni momento del processo e dilatare la maglia del tempo.
Paziente come preferire tutto quello che viene prima di quando succedono le cose.
Come dice la mia maestra Maia, quando si aspetta senza aspettare.
Poichè sono paziente non aspetto seduta su quella sediolina vestita di nero, là non si sente niente.

lunedì 6 ottobre 2014

stanca












































quando mia madre era stanca non lo diceva a nessuno. Non era di quelle che va in giro a dire quanto sono stanca. Probabilmente non se ne accorgeva finchè non si addormentava e quindi non se ne accorgeva fino al risveglio e a quel punto era riposata e non aveva quindi motivo di accorgersi nè di comunicare uno stato di stanchezza. 

Per me era molto emozionante guardarla dormire. Se si addormentava davanti alla televisione - qualche volta con le braccia conserte -  la stavo a guardare, aveva un'aria così tranquilla da non sembrare davvero stanca, neanche quando dormiva. Da sempre, da allora, stare vicino alle persone che dormono mi riempie di emozione, le veglio, le proteggo, tutto si fa molto misterioso ma senza oscurità, come se diventassi la mamma di chi dorme. 
Io invece - che sono nata stanca - ho passato buona parte del mio tempo a nominare i modi del mio essere stanca e ho faticato a trovare il comune denominatore della stanchezza fino a quando ne ho trovato l'etimo. Sono stata stanca per eccesso di movimento e stanca per deficit da movimento. Sono stata stanca per essere stata troppo sola e stanca per essere stata con troppe persone. Mi sono stancata per aver atteso e per non aver avuto tempo di attesa. C'è la stanchezza - colossale, dichiarata - di una giornata che non voglio cominciare e la stanchezza - repressa, negletta - di una giornata che non voglio finire. Ho provato la stanchezza di troppe cose da apprendere e la stanchezza di non trovare stimoli che mi dessero senso. Mi sono stancata a cercare l'attenzione di una persona e a subirne troppa. ho sentito la stanchezza di tutta una vita in un pomeriggio. E comincio a sentire ora la lieve stanchezza di un pisolino pomeridiano che forse ho mancato alla materna. 
Tutto questo ha a che vedere con la parola che nasconde una specie di inganno di passi, una lieve sostituzione. deriva infatti dal latino STAGNARE, far rimanere fermo, stagnante. Che a sua volta deriva da STAGNUM, acqua ferma. Con STANCA è avvenuto il fenomeno della dislocazione della nasale, come se la n si fosse stancata di farsi spiaccicare dalla g e avesse preso il sopravvento e la g per il dispiace d'essere stata sopraffatta fosse diventata una c. Si presenta anche in francese questo ballettao dove stagno diventa étang. 
Acque ferme quindi. Ogni volta che qualcosa comincia a ripetersi e a non cambiare, a calcificare lo stesso stato, diventa stancante, spossa. Non è quindi la fatica ma la ripetizione della fatica, la noia, l'assenza di cambiamento, di ritmo che mi stanca. Ora per esempio che sto cercando una chiusa a questa voce, qualcosa che possa ravvivare il senso di quello che dico, ora mi sento stanca perchè forse sto ripetendo lo stesso brusio che mi ha condotto qui. ma c'è quella speranza, quella tensione che mi suggerisce che può esistere qualcosa, che si può ancora incuriosirsi dei piccoli tragitti della mente che seguo senza fatica, trovando nuova energia. la stanchezza è quindi acqua che stagna. il riposo è quindi acqua che scorre.  


mercoledì 1 ottobre 2014

PALESTRA

Leggo un libro in cui la protagonista guarda la sua amica Connie, una sera mentre si annoiano insieme in camera. La protagonista pensa che non vuole essere come Connie che divora vassoi di dolcetti e poi fa i salti in camera. Dice di volere di più di quello. E la sera stessa si avventura nel letto di un ragazzo con cui farà l'amore. Li chiama "jumping jack", i salti di Connie. E' quell'esercizio in cui con un salto apri il corpo a x, portando le braccia in alto a v e le gambe divaricate. So che si chiama così perchè vado in una palestra dove ci fanno fare i jumping jack.
I jumping jack, gli squat, i fly back, roll-up, i crunch, sono diventate le mie istruzioni minime per resistere al crollo. Il mio antidoto alla stasi, al vuoto e ai biscotti. Chiudermi in una sala con decine di sconosciute che non frequenterei mai - e con cui non devo necessariamente parlare - con una musica massacrante a strizzare i muscoli (strizza! resisti! controlla!) sembra essere la soluzione migliore che ho trovato finora per andare avanti.
E infatti scopro che PALESTRA deriva dal greco PALAISTRA, composto di PALE, lotta, che però contiene PALLO scuotere, ed è quindi una lotta che scuote, agita, preme. Agli inglesi abbiamo lasciato la GYM, da gymnazein, il luogo dove ci si esercita, dove si viene addestrati. Noi ci siamo tenuti il luogo della lotta. 
Ostaggio di istruttori psicotici che usano espressioni come "andiamo a far lavorare" o "andiamo a distendere"o "la perfezione esiste", tutte noi ci compriamo una dose di spossatezza e di oblio nel modo meno avventuroso possibile. Dopo un'ora di gag io ho dimenticato tutto,  il mio nome, il mio generico inquinamento esistenziale, persino lei. E ben venga l'istruttore checca che si fa chiamare Adam e mi tira più in alto la gamba intimando il silenzio. Dio sia lodato per ogni giro di passè sullo step, per ogni attraversamento, per ogni serie di taglienti addominali. E infine, venga a me ogni orrendo brano di dance anni novanta remixato: perchè diciamocelo, nella palestra qualsiasi cosa, per quanto innovativa, ha il suono degli anni novanta. 
La lotta è ingaggiata, è una lotta a qualsiasi infiltrazione di dolore. E' una lotta al linguaggio, alle sfumature, persino a tutto ciò che esploro fuori (ascolto, percezione, attenzione, intuizione), tutto viene sbranato dalle fameliche istruzioni, dagli affondi, da corsi che hanno nomi come bodyattack e body pump. Dentro di me si agita la lotta più forte: voci che mi dicono chiaramente "ma non è questo il mondo che desideri!", "tu non parli così!", "tu non sei un pollo da batteria", "la palestra sta alla vita come la masturbazione al sesso, non lo vedi che è pura simulazione, è solo strumentale?". Eppure. Eppure.
Ma io in palestra ci torno volentieri. Negli anni, ad ogni caduta, ad ogni giro di smarrimento, la palestra, con quel suo sorriso sereno, plastico, totalmente indifferente ai tremolii dell'anima, mi ha sempre accolto senza fare domande, senza chiedermi niente, lasciandomi uno step o dei pesi da spostare, un phon per asciugarmi i capelli e un bagno turco dove piangere. (E non so dirvi perchè ma io nel bagno turco ci piango proprio bene).
Ogni tanto, con occhi bovini dopo quaranta minuti di saltelli e resistenze e flessioni, incrocio lo sguardo di un'altra e per un secondo esiste la possibilità di uno scambio fraterno, una solidarietà così preziosa proprio perchè rara- 
Poi l'istruttore urla "da capo!" disegnando con la mano un cerchio sulla testa. Allora ognuno ritorna al proprio dolore e la mandria ricomincia a correre.

Appunti privati che non so dove mettere:
che questa sia, in senso stretto, la sola fulminante maledizione che possa io mandare in tutta la mia vita. Perchè per colpa tua per un mese mi sono svegliata alle sei di mattina e ho seguito un'ora di gag con un'istruttrice indemoniata e musica techno come se tuonasse. Per colpa tua - per dimenticarti - ho fatto zumba (cristo, zumba!). Per dimenticare te - e questo non te lo perdonerò mai - ho dovuto accettare l'aberrazione sincretica del piloga: il pilates con yoga. Che tu sia maledetta per questo, ti auguro crampi incontenibili e istruttori mollicci.