venerdì 6 ottobre 2017

Rainbow


“Vado al rainbow!”
“Ah, vai a scopà?”
Questo l’ultimo scambio con la mia delicatissima amica romana, prima di spegnere il cellulare e lasciarlo sulla scrivania. Mi sono separata dal cellulare per più di 24 ore tre anni fa. Cammino di Santiago. Un cuore spezzato da guarire. 
Ai rainbow puoi portare il cuore spezzato ma non il cellulare. Anzi nessuna tecnologia. Niente droghe. Niente alcool. Niente carne. Niente violenza e niente cani. Ma già prima di partire, guardando la pagina facebook del raduno - attenzione gente, non è un festival, è un raduno, questo fa tutta la differenza, si va per stare insieme ecc ecc - vedo gente che dice che porterà il cane, che senza il cane non vive e che si prenderà cura del proprio cane. 
Avevo sentito parlare anni fa del rainbow, ma l’avevo catalogato come una delle esperienze che sono troppo vecchia per fare. Poi quest’anno che ne compio trentatré, ho visto che il raduno era in Friuli, le date coincidevano con un viaggio alla biennale a Venezia e ho preso tutto come un segnale dell’Universo come lo vede Brezsny. Quindi, partire. Anzi, siccome gli arcobaleni sono qualcosa che si vede anche da molto lontano, accetto di ospitare a Milano due piccole giovani rainbow che stanno facendo l’autostop fino in Friuli. Una è di New York, l’altra è svizzera e ha il cane. Due dei posti con il reddito procapite più elevato sul pianeta terra, eppure si procurano cibi avanzati dai supermercti e preferiscono fare l’autostop. Scopro che esiste anche un wikipedia dedicato solo a chi fa autostop: quali caselli scegliere per la direzione in cui devi andare, punti più o meno comodi per trovare un passaggio. Dove loro vedono avventura e incontro io vedo solo stupri e tragedie, ma forse, come dice Camille Paglia, lo stupro è il rischio che una donna libera deve correre: uscire, andare, rischiare, invece che chiudersi sempre di più in casa e nei confini dell’immaginazione fobica.

Per sapere dove si trova il luogo scelto per il raduno devi mandare una mail con risponditore automatico che ti invia una tenera mail tutta scritta con tonalità pastello-fricchettone che spiega come arrivare nella valle partendo da Tramonti di Sopra, un villaggio di 200 abitanti in Val Tramontina. La mail è tutta buone vibrazioni, vivere insieme tutti uniti, celebrare la vita, pace armonia e arcobaleni.

1. Partire
Io per entrare nello spirito rainbow, perdo l’ultimo autobus che da Pordenone va fino a Tramonti di Sopra. Me lo vedo passare davanti agli occhi insieme a un ragazzone bellissimo e sorridente appena arrivato da Tel Aviv. I raduni rainbow vanno forte in Israele perché i ragazzi appena smettono il servizio militare che dura tre anni scappano in India o viaggiano con gli hippie per sciacquarsi un po’ il karma. Yardem e io prendiamo quindi un pullman che ci porta nella ridente cittadina di Spilimbergo, non lontano da Casarsa. Provo a spiegare a Yardem, che comincia ad assomigliare sempre di più alla schiera di ragazzi che mi hanno spezzato il cuore in passato, che Pasolini ha trascorso l'infanzia qui. Ovviamente sono quattro case spoglie, con l’occasionale nonnina in calze color carne e ciabatte ortopediche e non c’è nulla di che, ma nel mio cuore c’è un tessuto di ore e percorsi che immagino Pasolini abbia vissuto, proprio qua. I poeti lasciano un profumo nei posti in cui nascono. 

Al telefono, approfitto delle ultime ore di cellulare per sentire gente che non sentivo da mesi e con cui non avevo niente da dirmi, mi rendo conto dei seguenti fatti, che sono in una località remota del Friuli e che non so dove dormirò stanotte. Il mio compagno di viaggio - che prima di salire sul pullman piscia contro il muro della fermata quasi fosse un novello Tarzan in natura e penso sia inutile spiegargli che a Pordenone questo comportamento non è ben visto - comincia a farmi notare che sono troppo pessimista. A Spilimbergo ci mollano e cominciamo uno dei sacramenti rainbow: l’autostop. Fermi, sudati, infastiditi, a pochi chilometri dalla casa natia di pasolini, con due zaini enormi, sappiamo che la prossima corriera passa tra tre giorni, quindi abbiamo rapidamente bisogno di un po’ di polverina rainbow. Prego il dio del rainbow di convincere qualcuno a fermarsi e portarci a Tramonti di Sopra (ma va bene anche a Tramonti di Sotto, perfino a Tramonti di Mezzo se è di strada). Ma come dice il mio amico Yardem, “They look very rich, very bored and they don’t stop for us”, che con un’invidiabile pennellata sintetica dipinge il nord-est italiano. 


Ora è bene che mi fermi e vi parli della mia amica Ilaria: la mia amica Ilaria è una strega vera, una persona che conosce i misteri, una persona che sa attendere il momento giusto e farsi trovare lì, dove accade ciò che deve accadere, come qualcuno in grado di allungare una mano un secondo prima che la mela caschi dall’albero. Di lei quindi mi fido: mi aveva detto che mi sarei subito innamorata, e infatti comincio già a sognare paradisiaci amplessi con il grezzo israeliano. Ilaria mi aveva anche parlato degli angeli del rainbow. Io ho passato tutti i possibili stadi di relazione con gli angeli: scetticismo, derisione, ignoranza, studio approfondito, canalizzazione, lettura delle carte, distruzione satanica delle carte, angelo custode, angelo bidella, angelo castrante, angelo bisbiglione, angelo spada di luce, tutti quei nomi assurdi degli angeli ebraici tipo azazot, rhfhgs o skjhfkjshrò ma niente e nessun angelo può batter l’angelo dell’autostop. Nello specifico questo angelo si manifesta in una signora sulla quarantina, vestita da tennis, con muscoletto allenato e chiappa soda, che appena ci vede fa una lunga frenata e ci guarda come a dire “ah, eccoli dov’erano”, scende dalla macchina e senza dire una parola ci carica gli zaini in macchina e ci porta a 40 chilometri da lì, all’inizio del cammino di quattro ore che porta alla remota valle della grande famiglia rainbow. Yardem non dice niente tranne I love you più volte. L’angelo in tuta da tennis ci porta, visto che è sulla strada a vedere la villa di Primo Carnera a Sequals e in un paesino, Meduno, dove c’è un’antica scuola di mosaico. 

2.Partire
Quando arriviamo al campo “base”, quello dove si molla la macchina, per intenderci, si comincia a percepire quella familiare aria di bidonville al patchouli che in me evoca ricordi adolescenziali di occupazioni, di festival, di esperienze non immediatamente disponibili alla memoria lucida. Una delle cose fondamentali dei rainbow è ritrovare la gente che avevi conosciuto ai rainbow precedenti. Incontri qualcuno al rainbow italiano, a quello europeo (che di anno in anno cambia location), ai rainbow in Galles, in Spagna, in Repubblica Ceca, ovunque nel mondo. E Yardem incontra una coppia tedesca: il loro incontro è incredibile, si abbracciano come due soldati persi al fronte a Verdun si tirano forti pacche sulle spalle e ridono. E questa cosa mi diverte. Anche perché scoprirò in seguito che hanno trascorso un pomeriggio insieme e basta nella loro vita. Poi c’è un’anziana signora a piedi nudi in mezzo alla monnezza che ci intima di non partire perché la strada è stretta, irta e a strapiombo sul nulla e sta per venire il buio e probabilmente moriremo. Ma noi ormai siamo in pieno delirio di onnipotenza (abbiamo trovato un passaggio da Spilimbergo a Tramonti di sopra, chi può mai fermarci?) e vogliamo trovarci in mezzo alla natura, quindi cominciamo un pezzetto del sentiero che subito diventa ripido e Yardem grida “Non ce la posso fare”.
Torniamo alla bidonville, dove scorgo un furgone appostato in zona tattica che vende chai caldo fatto con cannella e gas di scarico e ci attrezziamo per montare la tenda. Il mio cavernicolo israeliano mi chiede se si può accoccolare nella tenda con me, io mi irrigidisco di eccitazione, lui specifica che si tratta solo di dormire, io mi irrigidisco di delusione e continuiamo a montare la tenda. Mentre fisso i picchetti male e l’israeliano mi segue per fissarli bene, comincio a vedere gli altri bivacchi, i piccoli falò, i teli tirati da una ramo all’altro, le gamelle sporche di terra, i tappetini sudici di fronte all’ingresso delle tende: in quel momento mi ricordo che non sono una hippie e mi chiedo come farò a sopravvivere. È solo questione di minuti prima che comincino a comparire all’orizzonte gli odiati bonghi, con tanti di ometto muscoloso - abbronzato e convinto - che aspetta da mesi l’occasione per stuprare acusticamente le mie povere orecchie bianche e poco avvezze al ritmo tribale. 
Siamo in una valle che profuma di letame e il silenzio è quello preistorico del primo uomo sulla terra. A poche ore di cammino da qui, il Vajont, il sinistro monumento alla hubris umana. Qua, Tramonti di Sopra sembra piuttosto un insediamento devoto al silenzio e al semplice, al fare pochi passi per salutare il vicino, a citofoni intagliati nel legno con nomi buffi oppure con lo stesso cognome in tutto il condominio. Avere una sola piazza e tornarci ogni sera, in estate, a prendere il fresco. Rientro nella tenda che il mio cavernicolo israeliano sta già occupando con il suo respiro pesante. Mi giro e mi rigiro, inquieta come sempre, quando un corpo maschile è nel mio letto, provo a mostrare “casualmente” i seni sperando in un’improvvisa mossa di avvicinamento, ma lui si gira e capisco che posso solo provare a dormire. 

3. Partire

La sensazione è quella di essere già entrati in una specie di atmosfera, invisibile ma lievemente densa, che ci avvolge: quali siano i confini di questa bolla, cosa determini l’inizio di questo campo elettromagnetico rainbowiano non mi è dato sapere, ma lo percepisco. Alle cinque del mattino mi rendo conto che la sacca della mia tenda è sparita. Forse sono quei cazzo di cani che la gente porta comunque. Sì, perché nonostante il divieto la gente porta cani, droghe e tecnologia. Alcool no, forse davvero quel divieto funziona. Il mio cavernicolo israeliano fa una piccola orazione funebre per la sacca della mia tenda, dicendo che resterà sempre nel mio cuore e alle cinque di mattina - per volontà della coppia di fotografi tedeschi - si parte. Sulla strada piccoli segnali rainbow: cartoni dove si chiede di portare via la spazzatura che si trova. La salita è subito ripida e io ho le superga, quel tipo di scarpa borghese che allude a uno stile di vita attivo senza poi metterlo in pratica. Dopo pochi tornanti la bellezza del paesaggio - e la fatica di ogni passo - comincia ad ammutolirci. Il cavernicolo israeliano aveva provato a mettere della musica per il cammino ma quando parte un pezzo dei Sigur Ros io comincio a piangere e gli chiedo di spegnerla. Il cammino a sinistra presenta delle foreste di verde tenero e giovane. Gli alberi aprono i rami come braccia nella posizione del guerriero. A destra crepacci severi e torrenti azzurro ghiaccio. Il rainbow comincia a guadagnarsi strada sul mio corpo attraverso i piedi.

4. Il corpo
Mi levo le scarpe perché le superga borghesi finto-causal mi stanno sfregando impietose le carni ed è comunque arrivata l’ora di integrarsi, di mettersi in divisa. E mettersi in divisa al rainbow significa spogliarsi. Quindi piedi nudi per ora. Ma quando vedo passare una coppia di svedesi nudi con lo zaino allacciato in vita mi sento davvero una povera principiante. Il secondo cazzo all’aria lo vedo al secondo welcome point. I welcome point sono accampamenti dove puoi riposarti e mangiare e bere un té chai pieno di capelli biondi mentre ascolti due hare krishna che cantano. Il ventre della montagna comincia già ad essere territorio rainbow e non appena il nudo figliuolo vede una macchina fotografica puntata verso di lui strilla “no photo!”. La regola è infatti niente fotografie. Anche sulla pagina facebook di questa raduno - che servirebbe a organizzarsi per i passaggi e cose simili - appena spunta una fotografia della valle tutti protestano, s’indignano e s’incazzano. Incontro la ragazzina svizzera che avevo ospitato a Milano che mi racconta di come l’autostop da Milano a Tramonti di Sopra si sia risolto poi in uno strano incontro con tre ragazzi in autogrill alle tre di mattina seguito poi da una notte a casa loro. Sorrido complice ma dentro enumero gli scenari di stupro che subito si presentano nel mio immaginario coltivato nei pomeriggi dei telefilm sessuofobi che passavano su Italia 1. Ma forse è vero, forse la nuvola rainbow protegge dall’uomo bruto l’esile corpo lungo e gli occhi sognanti di Pauline. Lei non racconta di stupri ma si lamenta del fatto che al raduno sta mancando il cibo e c’è troppa gente.
Decidiamo di fare un piccolo bagno nel laghetto naturale appena sotto il bivacco centrale. Mi spoglio, orgogliosa di tutte e cerette saltate negli ultimi mesi: sfoggio il mio pelo selvatico, con la stessa soddisfazione di quando sfoggiavo il vestitino con le pieghe alla festa di compleanno. Una gioia antica, quella di preparare un corpo per mostrarlo. L’israeliano si spoglia, la tedesca si spoglia, ci sono già altri lì, l’occhio, dopo il primo stupore, comincia ad abituarsi alla normalità del corpo nudo. L’acqua del laghetto è gelida, dopo il primo contatto il freddo penetra sotto la pelle e la sensazione è quella degli spilli di cui parlava Jack in Titanic. Piccoli sbuffi, respiro accelerato, ma in generale un’aria di euforia e sfida. Arrivo fino a sotto la cascata che si tuffa nel torrente e per puro spirito di spacconeria lancio la mia testa sotto il getto e la cascata mi schiaffeggia tenera, come per darmi il benvenuto al rainbow. Ecco. Sto cominciando a parlare come loro. 
                                                        

5. Welcome sister - dove comincia l’inglese

Proseguiamo a piccoli tratti quasi verticali con pause che ci trovano sempre più stremati, isterici, incapaci di riprendere l’ennesima salita, soprattutto io e Melanie, la tedesca. Vediamo andare a venire nelle due direzioni esemplari sempre più unicorniaci di fricchettoni. C’è l’uomo anziano con due enormi pastori belga candidi come la neve. Ci sono le famiglie che sembrano dal binario 33e1/2, in diretta da Hogwarts, pieni di teli, di pelli, capelli strascinati, flauti magici,  acchiappasogni e bambini appesi a tracolla come borracce, che ciondolano sui precipizi osservando con sguardo serafico il baratro friulano - mi comincio a domandare come saranno da adulti, vorrei sapere cosa faranno da grandi in questo mondo. C’è una ragazza francese con il corpo completamente tatuato e un trolley pesante che trascina imperterrita sullo stretto sentiero affacciato sul crepaccio. Lo fa anche con un certo fastidio, come se si fosse improvvisamente ritrovata con un trolley in mezzo alle montagne, catapultata lì a causa di un qualche bizzarro disastro aereo. Penso serpeggi tra di noi la voglia di informarla dell’esistenza dello zaino. Ma l’effetto rainbow è quello, un lento disarmo del giudizio, proporzionale alla proliferazione di visioni inattese o “stramberie”. Quando vedo l’anziano uomo vestito solo con una t-shirt gialla logora (niente mutande a sorreggere il pendolo che ha segnato così tante ore) che porta al guinzaglio un micio di pochi mesi entro in uno stato di accettazione del prossimo che penso di non aver avuto dai tempi della materna, quando il mio motto era mi bava es tu bava. Man mano che ci avviciniamo alla valle io scasso il cazzo a chiunque passi chiedendo quanto manca? Quanto manca? Quanto manca? La risposta è sempre la stessa, you’re almost there, sister. Chiamare qualcuno brother o sister è più o meno come imparare la macarena: all’inizio ti senti ridicolo, poi ci prendi gusto. Entriamo in un territorio linguistico dove si parla perlopiù inglese, dove l’inglese è una lingua che splende per praticità, è una lingua che si usa immediatamente: ma nei rainbow è un inglese sotteso a una visione utopistica. Quindi invece del coordinatore delle attività (preparare il cibo, allestire il fuoco, tagliare la legna, andare a prendere il cibo) si dirà focalizer - che io intendo come uno non troppo strafatto di canne e in grado di mettere insieme un paio di pensieri lucidi. Poi se hai bisogno di qualcosa, per esempio un accendino, che qua sembra essere una necessità primaria, puoi urlare lighter connection! dove connection indica il tuo bisogno di un dato oggetto. L’impronta linguistica - sebbene io a questo rainbow senta prevalentemente il metallico inglese della famiglia tedesca - rivela l’origine statunitense. Di cui dirò dopo. 

6. Main Fire
C’è qualcosa nel modo enfatico, entusiasta e scanzonato con cui qua mi chiamano sister che quasi dimentico la mia recente lettura di The Girls, il racconto romanzato della family di Charles Manson. Il linguaggio è quello, brother, sister, family, comincia tutto con quel dolcissimo senso di resa e appartenenza, di accettazione e bene incondizionato. E poi finisce con frasi scritte con il sangue e feti dilaniati. 
La famiglia è una, formata da tutti quelli che si presentano al rainbow. E come in tutte le famiglie la rottura di cazzo è dietro l’angolo: butto un pezzetto di carta nel fuoco centrale e mi vengono a sgridare perché nel fuoco sacro ci va solo la legna. Chiedo dell’acqua, bevo dalla bottiglia e il tipo mi dice che qua non si tocca con le labbra il collo di nulla. (Tranne se siamo al laboratorio di tantra, in quel caso lecca pure). 
Il fuoco centrale, il Main Fire, è una circonferenza di 7/8 metri di diametro tracciata con le pietre dove il fuoco viene tenuto sempre acceso. Dentro il fuoco sacro, ça va sans dire, è proibito entrare con le scarpe, quindi è un continuo “brother shoes out of the main fire” (fratello, le scarpe fuori dal fuoco centrale) finché non arrivano dei fratelli americani che rimangono perplessi perché loro in America, dove è nato il rainbow, questa regola non ce l’hanno. La chiamano “una di quelle assurde regole europee”. Ma se volete sapere la mia opinione secondo me sono stati i tedeschi a introdurla. Intorno al Main Fire ci si ritrova quando dalla cucina arriva il misericordioso urlo “food circle now!” che viene ripetuto a tappeto per tutta la valle: la regola è che chi sente un grido lo ripete finché tutti - forse - hanno sentito. Questo è il sistema satellitare di comunicazione del rainbow. E funziona bene, soprattutto quando funziona. A quel punto chi è lì, nei paraggi, tipo me che ho in mano il mio piattino sempre dietro e sto aspettando il grido food circle già da un’ora, prende per mano chiunque gli capiti a tiro e comincia a proporre canti. Il punto è che prima si procede ai canti, prima si mangia. La prima volta che canto in un cerchio scoppio a piangere, ma non penso di aver trovato né una soluzione né una comunità. È una sensazione molto simile a quella che provo quando piove mentre c’è il sole. Qualcosa di irreale, sorprendente e passeggero. Il cerchio, il fatto che spesso partono “catene” di baci - qualcuno ti bacia la mano destra e tu baci la mano destra del tuo compagno, o viceversa - il fatto che sia così grande e così facilmente scomponibile e ricomponibile - tutti sono pronti a lasciare la tua mano o prenderla - producono quella precisa sensazione di sollievo (oh! esiste una tribù, siamo tutti insieme) e resistenza (basta con questa stronzata, voglio mangiare), quel doppio scarto che nella mia vita di liste di cose da fare, individualismo e città non esiste. 

7. Death and the rainbow 
Dopo poche ore del nostro arrivo scoppia un temporale furioso. Lingue di vento che sembrano per un momento materializzare il dio del vento, strattonano alberi alti decine di metri, li piegano, e sul dorso della montagna sembra di vedere la mano di una persona che tira un ceffone. Io come al solito sono sotto al tendone della cucina - dove vado sistematicamente a provare a rubare il cibo ai fratelli, perché altri fratelli mi hanno già avvertito che il cibo scarseggia. Quando scoppia la grandine - che tira raffiche di colpi violentissime - molti si sono riparati sotto il tendone della cucina, alcuni vestiti pesanti, alcuni nudi, alcuni ridono, alcuni hanno paura, ci sono bambini che piangono e bambini che allungano il bicchiere sotto la grandine dicendo, hey! ci posso fare il gelato! Io sto per morire di paura e la mano destra che sta tenendo uno dei lembi del tendone teso di vento non la sento più. Di fianco a me una rainbow princess francese. 
Tutorial rainbow: le rainbow princess sono ragazze che nello zaino sembrano aver messo solo preziosi tessuti indiani e gioielli e kajal e bindi per il terzo occhio. Sono ragazze la cui peluria ricorda piumaggio angelico, non setola suina come la mia. Sono ragazze forse già nate da genitori rainbow che quindi parlano abitualmente con le farfalle e hanno lineamenti delicati come le trame di una ragnatela. Non capirò mai quale segreto le renda così fresche dopo settimane di tenda e terra, mentre io dopo ventiquattro ore ricordo Lory del Santo dei peggiori giorni dell’Isola dei Famori, però ancora sovrappeso (vedi alla voce chapati di nascosto).  
La princess francese mi guarda e mi rassicura dicendo che andrà tutto bene e poi comincia a cantare una canzone dedicata alla pioggia e al sole e a pachamama. Dopo poco si uniscono altri e forse anche io, che nel panico di solito tiro fuori una disarmante vena mistica. La verità è che ora dovrei dirvi che ha smesso di grandinare in quel momento ma ho paura che non mi crediate. Quindi fate finta che non vi abbia detto niente. Il giorno dopo si scopre che un ragazzo belga, Almond, è morto. Che un ramo si è spezzato ed è caduto proprio sulla tenda dove aveva trovato rifugio durante il temporale e lo ha ucciso sul colpo, davanti agli occhi della sua compagna. Che a un rainbow si può morire. Che la natura se ne frega dei nostri cuori buoni, puliti e attenti, che non ci risparmia solo perché non usiamo sapone, non lasciamo rifiuti e ci inchiniamo alla terra prima di mangiare. Dopo poche ore gira la voce che sia nato un bambino. Poi due, poi tre, poi diventano di nuovo due. Due donne, al nono mese, hanno camminato in salita per sei ore e hanno poi partorito al giro di luna, anche se nessuno di noi ha effettivamente visto i neonati. Alla sera parlo con una ragazza che studia medicina che mi dice di aver scorto il parto, dall’alto, al crepuscolo: una donna si è distesa su una lunga pietra piatta e dopo venti minuti ha partorito, circondata da alcune persone. Tutto si è svolto in silenzio, solo con un vento forte, quello stesso vento che ha fatto cascare il ramo addosso ad Almond. Un’amica a cui racconto l’episodio mi dice che lei sarebbe morta perché durante il suo parto lei ha avuto una complicazione che senza una procedura chirurgica l’avrebbe condotto a morte certa. Una donna del rainbow o pensa davvero di essere invincibile oppure mette in conto anche di morire. 
Tutorial morte: Il corpo di Almond non è mai tornato nella valle, lo hanno portato via i servizi d’intervento friulano. In valle si è svolto un piccolo rituale sotto la tenda della musica: al centro della tenda c’è un piccolo fuoco, sempre acceso, dove si beve il tè caldo e si appoggiano oggetti sacri, immagini da krishna alla madonna, c’è un rosario, della salvia, ci sono amuleti non riconducibili ad alcun culto conosciuto e si canta sempre, fino a notte fonda (e alle volte che palle). Nella cerimonia di ricordo per Almond tutti tirano fuori - insieme a lacrime invisibili, quelle degli uomini anziani, che conoscevano quell’uomo e ne erano amici - la storia del ciclo della vita, uno se ne va, due che entrano. Il giorno dopo durante i cerchi del pranzo passa un ragazzo che raccomanda tutti di spostare le tende da sotto gli alberi. Io corro alla mia tenda, guardo tutti gli alberi che la circondano, ne studio lo spessore, calcolo in lunghezza la traiettoria di una possibile caduta. Sposto la tenda in mezzo alla pianura circondata solo da arbusti di trenta centimetri, ma poi conosco Anna. 

8. Chapati - Anna

Anna la conosco il quarto giorno. Io, che gravito intorno al cibo h24 per il terrore di rimanere senza, mi offro per tutti i servizi legati al cibo: taglio chili di pesche, lavo pentoloni di due metri di diametro, sguscio tonnellate di arachidi - quando il focalizer israeliano mi vede infilare un’arachide in bocca esclama “AH!!! it’s sacred! It has to be divided with the family!”. Io muoio di vergogna, ricordandomi l’efficacia del senso di colpa giudaico, mi  e continuo a sgusciare. Faccio anche la servitrice: talmente è la preoccupazione di non agguantare abbastanza cibo che mi presto a servire il cibo a 3000 persone sedute intorno al main fire (e che questo significherà mangiare dopo che tutti sono stati serviti). Il focalizer (l’ennesimo ragazzetto con i rasta che probabilmente si chiama Oceano, a meno che non sia tedesco, in quel caso si chiama Georg) ci spiega come bisogna servire per rispettare il più possibile delle norme igieniche. Ci si spalma le mani di cenere, e questo per me vuol dire ogni giorni procurarmi delle ustioni imbarazzanti, ci si sciacqua le mani e ci si avvicina alle persone per prendere i contenitori che ciascuno ha portato. Ci sono contenitori di tutti i tipi: è la gara a chi è più fricchettone. C’è chi ha segato una bottiglia di plastica in sezione e la utilizza come elegante piatto lungo. C’è chi usa la classica scodella di decathlon e chi invece presenta delle spettacolari ciotole di legno d’ulivo intagliato e benedetto dallo sciamano peruviano. C’è chi ruba il piatto a qualcuno. Io mi rendo conto che quello è un momento decisivo: se non chiedo a qualcuno di prendermi il cibo mentre facciamo il giro a distribuire le razioni rischio di restare senza o dovermi tuffare dentro un calderone alla fine per raschiare il fondo. Allora mi lancio sulla prima ragazza che vedo - ha gli occhiali e questo mi sembra un segnale di affidabilità - e le chiedo in inglese di prendermi del cibo. Lei accetta. Torno a servire e a un certo punto mi ritrovo con le mani affondate dentro un barile d’insalata preparata dalla famiglia francese che si chiama “joy salad”. (I francesi sono gli unici a dare nomi speciali alle loro pietanze. Le norme d’igiene si mescolano nella mia testa insieme al profumo di finocchietto fresco della joy salad e io mi trasformo in una specie di polipo che distribuisce insalata dentro le centinaia di vaschetta che arrivano dai servitori. Torno dalla ragazza che mi ha preso il cibo e piena di gratitudine inizio a mangiare. Scopro che è pisana e che come me è venuta qua con questo misto di scetticismo e adesione che ci permette di entrare subito in una necessaria complicità. Facciamo tutto, cantiamo, andiamo ai workshop di guarigione sciamanica, qi gong, raw food, ma poi quando ci ritroviamo a chiacchierare in riva al torrente pigliamo tutti per il culo. È il nostro spirito rainbow. Soprattutto quando durante la giornata ci perdiamo abbiamo un silenzioso punto di ritrovo: la cucina del chapati. La cucina del chapati è un tendone - che vola via ad ogni temporale - che protegge uno spazio dove da una parte si impasta il chapati, da un’altra, tutti seduti su lunghi tronchi di legno si stendono mentre nel retro si cuociono su delle piastre carbonizzate. Il chapati è uno dei pasti base del rainbow e se diventi un bravo focalizer puoi anche sfamare tremila persone con dieci chapati. Se impasti non vedrai neanche un chapati finché avrai vita, se stendi forse qualcuno avrà pietà di te e ti porterà un chapati appena pronto, se li cuoci alla piastra per uno che cuoci te ne puoi infilare di nascosto mezzo in bocca. Di chapati alla famiglia non ne arrivano mai abbastanza. Forse perché alle piastre ci siamo sempre io e il mio amico Benjamin - un hippy dei Pirenei con la pelle che sembra marmo grezzo e le mani che potrebbero strozzare un orso - e a noi della family, è evidente, non ce ne sbatte un cazzo. Anzi, siamo chiaramente lì innanzitutto per assicurarci il maggior numero di chapati possibili ma anche per istituire un giro mafioso di favori a base di chapati. Che elargiamo ad amici e conniventi. L’unico inconveniente è che a causa del fumo stiamo lentamente perdendo la vista e ci sono comparse delle venuzze intorno all’iride, ma come nella canzone di Gino Paoli ci potrai trovare là, io Anna e Benjamin. Qualcuno dalla cucina grida:
Lo sai quanto ci metti a capire se quello sul divano di casa tua è un hippy?
No. 
Tre settimane. 
Perché? 
Perché è ancora lì. 
E sai come fai a capire se se n’è andato? 
No.
Perché il frigo è vuoto.

9. Shit-pit 

Decidiamo di spostare le tende in fondo alla valle, vicino alla cucina dei bambini e vicino a un torrente bellissimo: ovviamente passiamo prima un buon paio d’ore a studiare la piazzola più safe di tutta la valle e alla fine l’unico posto dove saremmo al sicuro anche se gli alberi cadessero tutti insieme puntando tutti nella nostra direzione è di fianco al famigerato shit-pit. Nel libro della genesi del rainbow lo shit-pit occupa un posto fondamentale: quando il primo gruppetto di fricchettoni chiese permesso per organizzare il primo raduno in Colorado fecero un incontro con le autorità dove raccontarono come si sarebbero organizzati con le tende, l’acqua, i fuochi… e la merda. La leggenda dice che uno di loro mimò lo scavo di uno shit-pit - una specie di profonda trincea su cui accovacciarsi e cagare - e mimò anche l’accovacciarsi con un piede di qui e un piede di là dalla trincea, per nulla scontato. Dopo aver cagato uno deve prendere un poco di cenere e aceto e ricoprire il proprio dono alla terra con altre foglie e cenere. È il modo in cui i rainbow sono riusciti a sopravvivere a epidemie devastanti (ma non sempre, come vedremo). Al mattino quando mi sveglio vado a fare il bagno nel torrente ghiacciato, in una nicchia sulla riva, sotto a un albero, un ragazzo con i capelli lunghi arruffati suona il sitar sotto a un albero. Mi immergo nell’acqua ghiacciata, poi trovo una pietra dove mi asciugo tutta nuda e medito come  una dea indiana che crea il mondo a occhi chiusi. 
Poi rientro alla tenda e una zaffata violenta mi ricorda che la nostra strenua ricerca di sicurezza ci ha condotto dritte dritte vicino alla toilette: il nostro shit-pit tra l’altra è circondato di cespugli di lamponi che dopo questo rainbow produrranno lamponi atomici. Nonostante l’odore lo shit pit è un punto di osservazione privilegiato anche se mi mette un po’ a disagio tutto quell’accumulo di batteri. Qualche volta durante il giorno mi fermo lì vicino, come se stessi in fila e guardo la gente cagare: ho una strana fascinazione per questo momento privato e universale, guardare qualcuno che caga mi ricorda che siamo tutti uguali, come quando mi ricordo che tutti moriremo. Tutti caghiamo e tutti i giorni. Proprio tutti, infatti dopo 48 ore lo shit-pit si riempie di cacca. Io ogni giorno provo a cagare nello shit-pit ma non ci riesco. Devo salire fino in cima alla montagna e aggrapparmi alla roccia come le capre, altrimenti il mio sfintere si rifiuta di collaborare. Un giorno però decido di chiudere lo shit-pit vicino casa e chiedo a un ragazzo dall’aria molto paziente di spiegarmi come chiuderlo. Lui mi guarda e mi dice, certo, però prima di coprirla la volevo usare. Fa una cacca molto gialla, color curry. Poi mi dice che il modo di chiedere aiuto qua al rainbow è urlare. Io da una parte lui dall’altra al tre urliamo: shit-pit help! E ancora: shit-pit help!! Fino in fondo alla valle. Lui se ne va sorridendo e dicendo l’ennesimo thank you sister. Scoprirò poi qualche giorno dopo è stato prelevato da un’aereoambulanza per una setticemia che si è poi rivelato un ceppo di  tifo contratto in un viaggio in India e che si è poi esteso a tutta l’allegra famiglia. (“L’hippy aveva il tifo” dirà il Messaggero Veneto). Poi rimango da sola. Disarmata, nella mia trincea di merda. Potrei occuparmi di qualunque cosa, ma resto lì, a vedere se arriva qualcuno. E arrivano ma sono altre persone che devono cagare. Però io nel frattempo ho recuperato le pale, sta per piovere - sono ormai giorni che piove e siamo infreddoliti tranne le polacche che girano ancora tutte nude - io sono nervosa, voglio coprire la trincea prima che l’ennesimo uragano dilaghi e inondi il campo di liquami. Probabilmente traumatizzo un diciannovenne italiano perché comincio a scavare mentre lui è accovacciato a produrre i suoi due etti di puro amore per la terra - ho come la sensazione che gli italiani siano sempre più debolucci o pudichi o viziati degli altri - e ne percepisco il disagio. Ma continuo a scavare. Finché non mi faccio male alla mano con una scheggia. Allora guardo tutti quelli che si sono messi a scavare per coprire la buca e penso, hey, posso convincere cinque persone a ricoprire un buco di merda, posso fare qualunque cosa. Rainbow corso rapido di autostima. Tra questo e il workshop di tantra torno che sono un leone, mi dico.  

10. Feather and the aliens
Sono intorno al cerchio sacro, sto cercando qualcosa da fare, non so se meditare, fare yoga, suonare un sitar, seguire una pista sciamanica, farmi massaggiare la vagina da qualche tantrico, parlare con un lombrico o odiare tutti. Passa una donna dai capelli corti con un flauto e mi dice che oggi alle due Feather, una delle persone che ha partecipato al primo rainbow nel mondo racconterà la sua esperienza. Allora mi siedo e aspetto. Finalmente potrò dare un pochino di senso a quest’esperienza. Dopo pranzo, con nuvole che ridono da tanto acqua promettono, vedo questa piccola donna con capelli bianchi lunghi fino al sedere, due occhi azzurri limpidi come il perdono ride e ci chiede di darci la mano, in cerchio (Mi stringo la mano tutti i giorni con questi tremila sconosciuti, ma con lei sembra una cosa ancora diversa). Comincia chiaramente a piovere ma a lei non sembra interessare. Resistiamo un po’ poi cerchiamo riparo in un teepee dove, come nella casetta in Canadà, ci piove dentro. Lei a ogni tuono ride e ringrazia sorella acqua Io ogni volta che lei ride, per qualche bizzarro effetto del karma ricevo una scrosciata d’acqua accumulata nelle pieghe del tepee. Lei racconta girando su se stessa, in modo che tutti possano ascoltare: una hippie di 23 anni, con una figlia, che viveva in una comune in Colorado. Ognuno ha la sua casetta, c’è perfino un bungalow costruito da un monaco tibetano con gli oblò di scarto delle navi. Ci si trova, ci si droga, si fa l’amore ma senza gli omicidi alla Charles Manson. Hippie standard. Un giorno arriva il “Rainbow oracle”, una raccolta di scritti in cui si annuncia il primo raduno rainbow, per festeggiare il 4 luglio, la festa di indipendenza americana, ma piuttosto per festeggiare l’interdipendenza:
“Come si trattano gli altri?”, esclama Feather.
Silenzio.
“Non ci sono gli altri, we are all one”, è la risposta di Padre George, uno degli hopi che ha attraversato tanti rainbow e che per Feather è stato un padre spirituale, oltre agli alieni.
Sono infatti due le fonti spirituali di riferimento: gli hopi avevano preconizzato l’arrivo degli hippie, un popolo buono che avrebbe salvato la terra. Feather dice di aver visto delle incisioni che lo confermano: ci sono persone che vivranno solo con la testa e gli hopi centinaia di anni fa li hanno ritratti con una testa gigantesca e loro penseranno solo al profitto personale, poi ci sono quelli che si muoveranno nella scala più bassa, più vicina alla terra e loro entreranno nella nuova dimensione (gli hippie e il chapati) poi ci sono quelli nel mezzo che vanno un po’ su e un po’ giù. E poi dice che durante il primo Rainbow le sono apparsi gli alieni che le hanno detto che a un certo punto nel cambio della nuova dimensione loro si sarebbero manifestati e che non dovevano avere paura perché ci avrebbero pensato loro. Tutti la prendono per pazza ma lei dice che è così e che ha incontrato un’altra che ha avuto la stessa esperienza e quindi dev’essere così. 
Io la ascolto mentre una goccia mi cade regolare sul collo tipo tortura cinese e penso che le persone che mi ispirano di più di solito sono considerate pazze. Che anche io mi sento sempre dare della pazza. Questa donna ha vissuto gli ultimi cinquant’anni viaggiando, in condizioni avventurose a dire poco, non ha paura di niente è evidente, si fida dell’universo, del suo intuito e delle forze della natura. Non dico che vorrei vivere come lei, però era a Standing Rock, con i suoi 77 anni, a difendere le terre dei nativi americani dagli oleodotti. Ha convinto uno dei più grandi produttori di latte biologico - un uomo dei rainbow - a donare milioni di dollari per la causa. È una donna che vive nello spirito. Alla fine del discorso ci rimprovera comunque che non facciamo abbastanza silenzio. È il silenzio la chiave dei rainbow, nel silenzio si trova la risposta. E anche gli shit-pit. Dice che abbiamo i peggiori shit-pit della storia dei rainbow. Me la prendo sul personale e mi faccio un appunto per migliorare la mia tecnica di shit-pit- 

11. Going back

Pieni i coglioni. Infatti pieni i coglioni della gente che canta a tutte le ore. Di mattina, in cucina, prima di pranzo, dopo pranzo. Sempre le stesse canzoni. Mi era già successo, con gli Hare Krishna. O ti arrendi alla ripetitività o meglio se ti cerchi altro. Ad alcuni fa proprio bene restare nel letto del fiume del rainbow, dove tutto scorre e si cantano le stesse canzoni. Io e Anna vogliamo rientrare. Ci sono due possibili sentieri. Uno in salita che sembra essere più rapido e quello dell’andata che è in discesa. Lo so che la risposta sembra scontata ma ci metto un po’ a capire che la risposta giusta è la strada in discesa. La strada giusta è sempre quella dell’andata così puoi vedere il cammino che hai fatto. E nel mio rientrare esclamo welcome sister e welcome brother ad ogni persona che arriva, come se ci credessi davvero, perché per quei dieci secondi mi sento così. E scendo a piedi nudi fino a valle con Anna che mi vede bestemmiare a ogni sassolino che mi dice, ma non è meglio mettersi le scarpe? Quella è la domanda giusta. Non è meglio mettersi le scarpe? Non è meglio abitare in una casa riscaldata? Non è meglio avere gli autobus? Non è meglio avere il telefonino? Non è meglio internet e il supermercato dove ci lanciamo per mangiare formaggio e cioccolato e pane e tutto nello stesso vorace boccone? Chi può saperlo. Quella sera stessa entriamo scavalcando - in perfetto stile rainbow - a un party goa dove la gente è come al rainbow ma ha pagato 150 euro di biglietto e va in trance sull’elettronica. Io il giorno dopo ho la febbre e sull’autobus per Pordenone vedo Pasolini che attraversa i campi correndo per salutarmi al finestrino. Poi l’autista mi grida “signorina, i piedi” e mi ricordo che sono di nuovo nella terra del metti giù quei piedi. 

12. Preparare un fuoco.
Ora so preparare un fuoco. So come si fa e so che può succedere. Ora quando vedo un albero lo sento vivere, so che vive. Ora ogni tanto mi rivengono in mente le canzoni e viene da ridere. Ora se mi va mi faccio un chapati e se raccolgo delle umbrellifere le aggiungo all’insalata. Ora con Anna ci si scambia messaggini come due reduci di qualcosa di importante, come veterane e come amiche. (Insieme a tutti gli articoli allarmisti del Messaggero Veneto). Ora quando vedo un hippie mi dà ancora fastidio comunque. Ma penso che esiste un mondo dove ha senso vestirsi, comportarsi, inventarsi la vita così. Che forse ha senso anche farlo qui. Mi ricordo la bellissima principessa rainbow tedesca, con una gonna dei colori del bosco, piena di frange, due occhi vivi come la brace e un sorriso largo come la valle che danza con coraggio e grazia. 

Ora qualche volta mi capita di domandare:
“Hey, come si trattano gli altri?” 
Mi rispondono: 
“Come?” 
“Non esistono gli altri, siamo tutti uno”.
Me l'ha insegnato Feather e a Feather lo hanno insegnato gli indiani Hopi e agli indiani Hopi l'hanno insegnato gli alieni, quindi c'è da fidarsi. 


giovedì 13 luglio 2017

rosario

Sono quindici diecine di Ave Maria, con un Pater Noster al principio di ciascuna diecina - non sia mai che si inizia a onorare la Vergine senza prima onorare il Padre - e poi un Gloria alla fine in onore del mistero della reincarnazione. 

(Gloria, per me per sempre il nome di un travestito, il vero miracolo della reincarnazione). 

Così sei tu, che ti chiami rosario, ma in un'altra lingua, hai un nome che si chiude con la o, quelli che mi hanno insegnato sono i nomi maschili. Ma tu hai corpo di donna.
Ricordo già che per me era stato un passaggio difficilissimo accettare che Andrea con la A fosse un nome maschile. Poi dopo mesi di duro lavoro scopro che la cugina? sorella? fidanzata? di Brandon, in Beverly Hills si chiama Andrea. Ci avevo pensato settimane. Potevo sopportare un già ambiguo Alice, ma Andrea, come poteva mai essere una donna? Come poteva essere il nome di un uomo e di una donna? Cosa nascondeva sotto i vestiti? 

Tu sei l'ennesima incarnazione di qualcosa a cui non so dare ancora un nome: per oggi è il tuo, che è un rosario usurato da chilometri e chilometri di migrazioni, proviene dalla terra nuova, è andato e tornato, come nella concia di pelle: alla pomposità barocca di rosario è stato tolto il pelo, l'odore, le imperfezioni cutanee, fino ad avere solo un piccolo nome esotico, minuscolo, dolce, potente come l'uranio, di cui si intuisce la fosforescenza ma non la dannosità. 


Camminando fianco a fianco, entriamo nella foresta, conquistiamo alcuni tornanti, camminiamo come ninfe del bosco. tu hai una voce profonda, più profonda della foresta, come una caverna umida di letture e intuizioni. Conosci il libro, le vite dei santi, mi dici con la gioia che trabocca dalle dita che la madonna ha concepito un'idea e partorito carne, che il rosario in realtà ricalca la cinta uterina. 

Mentre la luce filtra tra i rami del bosco io comincio a sgranare il mio rosario - accidenti a dio che hai un compagno e tre figli, accidenti alla madonna che hai un compagno e tre figli, accidenti al clero che hai un compagno e tre figli di cui uno da poco uscito dal tuo utero miracoloso - intervallata da un'invocazione della Madonna dell'Ormone che mi distolga lo sguardo dal tuo corpo - un'incarnazione di tessuto tutto denso d'amore - e chiudendo ogni diecina con un Gloria al fatto che tra poco parto e ho qualche speranza di dimenticarti. Scendiamo di nuovo la montagna, io provo a cambiare strada, ad allontanarmi per poter dire il mio rosario a voce un pochino più alta. 

Non aspettavo altro: era quell'odore d'estate, era che c'era luce fino a tardi e tutto prendeva un bagliore appena prima del tramonto che mi dava speranza, mi faceva felice. Mi sembrava l'unica cosa sensata da fare con l'oratorio, seguire la massa di gente in processione dietro la madonna con decine di candele, a recitare le preghiere con quel tono lagnoso che solo i cattolici sanno intonare. Quello era un vero rituale: per strada, imprevisto, anarchico, un'apparizione inesorabile. E mia nonna mi aveva anche regalato un incredibile rosario fosforescente che tenevo alla luce della lampadina per avercelo pronto alla sera. Poi cominciava la resistenza. Il gioco era ovviamente arrivare fino alla fine e dire tutte le ave marie. Al tempo lo facevo per quel motivo e perché ero felice di fare parte della squadra di matti.

Dentro quella lagna però, oltre a me che ci entravo per spirito di sfida, c'erano perlopiù persone che scioglievano il dolore nella voce, sgranando il rosario, ogni grano una rosa, il fiore di Maria. Ogni rosa tanti petali che si aprono (o si chiudono?) uno dentro l'altro.
Dentro in fondo capivo che eravamo tutti lì a ripetere delle preghiere con tono sempre uguale camminando perché nella disperazione - una disperazione che conquisto un giorno alla volta, un grano dopo l'altro - tanto valeva fare anche quello. Del cattolicesimo sembra essere il gesto più inutile e poetico. 
Non ne ho viste più a Milano di apparizioni del rosario, dove sono finite? E dove sono finita io? Perché ho rinunciato a tanto spettacolo? Perché sono finite le apparizioni?

Scendendo dalla montagna, visitiamo il santuario dove dicono sia apparsa la Madonna. Tu mi racconti che alla bambina a cui è comparsa, la Madonna ha detto "sono venuta per portare la felicità su questa terra" e poi mi sveli altri fatti di cui sei ovviamente a conoscenza: che il solito prete è venuto a cercare di convincerla a cambiare versione, che era troppo provocatoria questa madonna felice in terra. Che la bambina ha dovuto smettere di andare a scuola perché assediata dai fedeli che chiedevano un'intercessione (concetto tipicamente italiano in cui si chiede una raccomandazione anche a Dio).

Sono qui che sgrano ogni giorno il mio rosario di sessanta minuti poi di ventiquattro ore, quando mi appari - in un giro di pensieri, in un fiore, nella voce di un cantante cileno - conto fino a tre e poi penso ad altro - anche agli orari del treno -, se non ci riesco prendo le mie chiavi di casa dove ho appeso una diecina e comincio a toccarle e farfugliare la prima cosa che mi viene in mente - anche gli orari del treno. Per caso due grani di questo rosario sono rimasti vicini a una fonte di calore e si sono fusi insieme. E questo è bellissimo. 




giovedì 18 maggio 2017

raku

Sono arrivata senza nome, senza pelle, gomme a terra. Non riesco a parlare con nessuno e provo solo a trovare la giusta dissolvenza a nero sul nostro rapporto. Siedo sul dondolo fuori e scrivo, traduco, faccio il caffè, chiamo qualcuno, ma in realtà chiamo per restare in silenzio. Tutto intorno a me fiorisce o dichiara il proprio arrivo nel mondo, esplode di gioia, in frenesia di rondini e sole che si prepara all'assedio estivo. Tra gli altri c'è raku, il nuovo cucciolo di mia sorella; nero, leggermente strabico, con la lingua sempre penzoloni per la gioia, un fremito per ogni farfalla che passa, ogni carezza un tripudio da celebrare con almeno un minuto di salti. 

Raku è la tecnica orientale di smaltatura utilizzata da mia sorella per le sue sculture: un'alchimia che abita i miei ricordi d'infanzia, qualcosa che ci rende esotici e diversi in paese, qualcosa che non sapevo raccontare ai bambini del borgo, una parola con la k, preziosa, specifica, incomprensibile ma per noi domestica, una sottile dichiarazione d'estraneità alla comunità dell'alta maremma dove mia sorella abita da tanti anni; per il borgo il cucciolo raku diventa ragù o draco o daco, ne accarezzano il pelo ma ne riformulano il nome, lo traducono. 

La vista di mio nipote di un anno che scambia voraci colpi di lingua con raku è sufficiente a strigliare il nero e cupo destriero che mi tiene distante. (hey, guarda! sono diventata grande, anche io ho la mia depressione, finalmente, ora posso unirmi con piccolo tonfo sordo agli adulti, quelli che hanno negli occhi il taglio preciso del diamante, quello che recide ogni speranza infantile).

Presto al mattino e tardi nel pomeriggio io e raku usciamo a camminare. Il primo giorno restiamo al guinzaglio per tutto il tragitto: dalla casa, nascosta in mezzo alle colline, si percorre un sentiero nella boscaglia e si arriva al borgo. io però patisco il guinzaglio più di raku, mi sento più prigioniera di lui. (come fanno le persone di potere a sopportare quella tensione continua?) quindi per egoismo dopo un paio di giorni di negoziazione - primo tratto senza, poi dove c'è l'incrocio lo lego, poi di nuovo nella macchia lo tolgo - andiamo senza. Lui trotterella sereno, annusa, mi guarda, si allontana di pochi passi ma subito ritorna al mio fianco, in virtù di quel misterioso campo magnetico che connette il cane all'umano. 
(È per questo che hai preso un cane? per questa sensazione di invisibile persistente devozione? non ti bastavo?)


C'è un tratto nel bosco che corre in rettilineo lungo un fosso, è un punto quasi magico, dove ci è capitato spesso di scorgere tane di draghi flessuosi e fosforescenti. Ma qualcosa attira me e Raku, un corposo movimento di foglie nel fosso. Mi allungo aspettandomi, con timore ed eccitazione, di vedere un sorcio. Ma è un uccello. Un uccello di cui non conosco il nome, con un becco lungo e appuntito, non un semplice passerotto, una  grande testa ovale arancione e ali ripiegate grigio-marrone. dev'essere ferito perché prova a risalire la china del fosso e ad aprire le ali ma non riesce. 

io e raku sul bordo lo guardiamo. io penso che potrei prenderlo in mano e salvarlo, come si faceva da bambini, ma poi non saprei cosa farne, dove portarlo, penso che mi sporcherei le mani, che stavo solo andando a fare la spesa, che sì, sarebbe bello salvare un uccellino, non avevo letto da qualche parte che era quello un gesto puro, ma per me non è più tempo di essere pura, posso solo essere adulta ed accettare lo smacco, penso che gli uccelli hanno qualcosa di malato tra le loro piume e ho paura di ammalarmi toccandoli, penso che non sono pronta a salvare una vita per davvero, ma qualcosa dentro di me ancora presenta appelli e petizioni, mi chiede di salvare una vita, si presenta un'adunata chiassosa, finché con un leggero balzo, quello che io non riesco a fare, raku salta nel fosso e comincia ad abbaiare contro l'uccello. 

io, ingenua, penso lo stia spronando - maledetta disney - ma l'uccello, che non è della disney, si agita e tira colpi d'ala impotenti, senza riuscire a sollevarsi, poi cinguetta forte, chiaramente contro raku. Io anche comincio a urlare forte "raku!" "andiamo!" "raku lascialo stare", "raku!". Tutto intorno a noi è lieve ondeggiare silenzioso di foglie e rami, ma noi tre siamo urlando fortissimo e siamo agitati e quando il suono delle nostre urla satura il fosso, raku tira un forte morso al collo dell'uccello e lo uccide sul colpo, mentre continuo a urlare e sento il mio collo spezzarsi, la cartilagine cedere al morso deciso, quello che chiude ogni negoziazione e subito dissolve qualsiasi segno di vita nel piccolo uccello. 

Io mi accovaccio sul fosso e piangendo guardo raku che continua a tirare morsi, aspettandosi reazioni, scatti, movimenti, vedo sorgere la delusione che spesso coglie il carnefice quando la vittima gli tira lo scherzo più atroce, quello di morire, di sottrarsi al gioco, vedo la frustrazione di raku mentre solleva in bocca l'uccello e la riapre per farlo cadere nell'umidore delle foglie del fosso, sperando di rianimarlo. Non sa cosa farsene di questo uccello ora che è morto ma lo trascina per un pezzetto, lo riavvolge, lo rigira.

raku mi guarda e non ha dubbi: lui è un cane, quello è un uccello e io sono io, non ci sono sovrapposizioni di sorta né possibilità di mescolare e di pasticciare come faccio io che mi sento io accovacciata sul fosso, che mi sento cane festoso di sangue, mi sento uccello con ossa di cannuccia e collo spezzato, mi sento persona che già scrive di questa esperienza e mi sento persona deboluccia alla vista della morte e che stasera mangerà pollo impanato, con carne rilavorata, senza gli spasmi e i singulti che mi gonfiano il petto in questo momento. che non so spiegarlo a raku che forse il problema è proprio quello, di sentirsi sempre altro da sé, altrimenti sarebbe più facile.

raku riprende la strada, scondinzolando, si avvicina per leccarmi, fresco di omicidio, stasera forse di nuovo leccherà con sincera passione la faccia di mio nipote che emetterà guaiti di gioia di cucciolo.

p.s.: è solo dopo qualche ora che la donna, addolorata e confusa, legge su wikipedia che raku in giapponese significa "gioia di vivere".



lunedì 17 aprile 2017

demordere

di te mi sono rimasti i cani e dylan dog. che comunque è cane di cognome. di te quindi mi sono rimasti i cani. tu adori i cani. quando vedi un cane lo saluti come se stessi salutando un amico che non vedi da tempo e poi ci resti vicino e salti e sei felice. sei felice quando vedi un cane. lo abbracci e lo fai sentire speciale. dedichi del tempo al cane. ora lo faccio anche io. ogni volta che vedo un cane mi fermo e lo celebro, lo tocco, sperando nella carezza di sentire te, lo abbraccio per abbracciare te. 
questo succede di giorno, quando  mi porto a spasso per fare i bisogni. 

la sera entro nel negozio di fumetti dei navigli, scendo al piano inferiore e uno a uno controllo tutti i dylan dog che sono in vendita. se trovo quello disegnato dal tuo disegnatore preferito - roi - lo compro. lo leggo e poi lo lascio vicino al letto, insieme agli altri, il mio cumulo di ossa rosicchiate, ogni vignetta spolpata, guardata, assaporata come mi hai insegnato a fare te.

sono nata da un gatto e un cane: dal mio cane ho preso una meravigliosa attitudine alla devozione, la capacità di rovistare, di fare festa per nulla, di scodinzolare senza pudore, la capacità di fare cuccia nel cuore di un umano, di guardarlo e implorare pietà.
dal mio gatto ho preso gli occhi maliziosi, il crudele diletto nel giocherellare con le unghie con il cuore di un umano, lo spudorato venire quando c'è cibo, quando è disponibile, questa cosa di mangiare per conto mio, di lasciare teste di lucertola come mite manifestazione d'affetto. di guardare l'umano e concedergli altezzosa udienza.
si può essere cani e gatti nello stesso corpo e nello stesso giorno, ci si può azzuffare nello stesso sangue, io so, perché sono figlia di un cane e di un gatto, ed è un azzardo genetico, che non sempre genera creature resistenti. 

Con te sono un cane.

i giorni del cane sono quelli in cui tengo i brandelli di te, del tuo cranio, del tuo labbro - perfetto al morso sia quello superiore sia quello inferiore - del tuo seno, del bordo dei tuoi jeans, scuri e stretti. sento vibrare il ringhio ad ogni tuo strattone, lo strattone che tiri tornando alla tua vita, mentre io stringo i denti. 

ma tu sai come si convince un cane a demordere: allenti la presa, sciogli la tensione che corre tra mandibola e corpo, mi guardi e mi dici, cos'hai da mordere? perché mi tieni qua, mi trascini ora che non ho palline da tirare, ossa da gettarti, coccole da farti, istruzioni da darti, intenzioni di addomesticamento? io cane ancora ringhio all'aria, schiocco nel vuoto le mascelle.

demordere: dal latino mord-ere, dalla radice mardmared, tritare, dove è mard-n-ati in sanscrito, affine a mrnati, di cui si parla quando si parla di morte, in ogni caso il senso è quello dello stritolamento. il prefisso DE- scioglie la tensione mandibolare, solo dirlo costringe ad aprire la bocca, la mascella che serra un brandello del tuo fantasma, mentre tu sei già dietro di me, sei già diventata la mia coda, ora sono cane che si morde la coda, ora so che mordo solo perché sento tirare, è solo un istinto automatico, è il mio cane che ha paura. ora chiedo aiuto al gatto, quello che conosce il mistero di amare solo se stesso.

venerdì 3 marzo 2017

mantenuta

Comincia tutto con me che supero il tornello della metro di San Babila e dico al mio amico Luca: davvero non so cosa fare della mia vita. E lui, esclama: "Cara, questo si era capito da mo'. Sei confusa. Dai trovati qualcuno che ti mantenga e continua pure. Suvvia, un'altra persona confusa al mondo, oddio che noia".
Mi blocco come se qualcuno pronunciando un'odiosa formula mi avesse trasformato in una statua di sale che scende le scale mobili.
Quindi il mio mago mi ha detto quello che doveva dirmi e mi ritrovo nuda sulla banchina di San Babila. Forse sì, forse è quello che vorrei fare, gettare via tutto e lasciarmi accudire, lasciare ammorbidire le ossa, imbalsamare le certezze, provare profumi alla Rinascente, passeggiare su perimetri sempre identici, metterci mesi a scegliere un cane, disinteressarmene, non provare mai la paura, certi giorni non alzarmi dal letto per decidere di nuovo chi sono, lasciare che il giorno si svuoti come una vasca da bagno mentre screpolo le dita.

Sono cresciuta su due precetti fondamentali: si vota a sinistra e non ci si fa mantenere. Come se tutte le donne prima di me fossero esistite in un'immaginaria scala di evoluzione progressiva solo per portare me a essere indipendente, talmente indipendente da non dover rendere conto al mondo neanche dell'aria che respiro, dell'acqua che bevo e del sole che mi scalda. Indipendente come unità di completa autosufficienza.
Così forse con me, immagino, si può passare il solvente sul matrimonio di mia madre (sai, lui mi amava e questo mi sembrava una cosa bella, una cosa per cui vale la pena di ricambiare), sul matrimonio di mia nonna (l'avevano proprio assegnata a quell'uomo, non penso lo avessero neanche chiesto a lei, erano tempi difficili) e perfino sul matrimonio di mia sorella che è un capolavoro di equilibrismo tra sincero affetto e totale assenza di una progettualità personale.

Il giorno dopo ricevo un rifiuto sul lavoro, una prova di traduzione che ho fatto probabilmente in modo sciatto, perché diciamocelo, da quando ho voglia di fare le cose per bene? Vorrei incolpare il capitalismo della mia sciatteria (fanculo al "sistema" che mi fa sentire sempre inadeguata) e una parte di me pensa anche che potrebbe reggere come argomentazione ma sarebbe una stronzata perché sappiamo tutti quanto siano meravigliose le cose fatte bene.

Quindi non ho nessuna attenuante per la mia sciatteria: forse solo una generica mancanza d'amore. Alla mia terapeuta dico che potrei tornare a frequentare il mio amico d'adolescenza, quello che ogni tanto a distanza di anni ci si rivede, quello che mi farebbe sentire finalmente protetta, quello di buona famiglia, di ricche sostanze, che ha una mano abbastanza grande da chiuderla un poco sopra la mia testa e schermare il vento e la pioggia.
Quello, dice la mia terapeuta, è anestesia: perché dovrei chiedere l'anestesia prima ancora di provare dolore?
Le dico che ho paura e perché non dovrei cercare protezione, simbiosi, qualcosa di giusto e naturale?

Il mio dolore ha la forma di una botola, una specie di botola che si apre sotto ai piedi nei momenti più inaspettati. Di solito sono pensieri legati all'insicurezza, al fatto che potrei morire sola, abbandonata, dimenticata, potrei non trovare mai la mia strada, pensieri che abbiamo tutti un giorno o l'altro. Lo stesso senso di precarietà che tutti i giorni mi alleggerisce i talloni, quando c'è la botola, mi uccide.


Seguo il consiglio della terapeuta, lascio stare il progetto di circuizione dell'amico benestante e parto con te, che hai mani piccole e sempre desiderose di uno strumento. Siamo in una città dove vengono molti innamorati, noi no, noi siamo piccole bambine sperdute. Gli innamorati invece qua si tengono per mano. Come se fosse un accordo silenzioso di sottile tensione, diverso dal braccetto, dove qualcuno tiene con l'anello del proprio braccio e l'altro si fa sostenere. Il braccetto crea prossimità ma anche disparità.

Tenersi per mano è invece una continua negoziazione: a qualcuno viene in mente che sarebbe bello tenersi per mano. Quando? Soprattuto perché ci si tiene per mano? Qual è l'etimologia di questo gesto? Chi è stato il primo a tenersi per mano e a vedere che funzionava? Che succedeva qualcosa di bello quando due persone si tengono per mano.

C'è un rischio mortale nella prima esitazione: io di solito quando prendo la mano guardo da un'altra parte come se stessi cercando di sfilare il portafoglio, sono troppo timida per reggere lo sguardo di lieve sorpresa di qualcuno a cui viene presa la mano. (Quello sguardo penso di non averlo mai visto) Quando prendi la mano lasci che venga presa la tua. Sacrifichi quella mano per l'altro: non puoi muovere quella mano, non puoi usarla per rafforzare l'equilibrio del tuo corpo, quella mano si salda e la tua mano opposta diventa la mano dell'altro: se per esempio dovessi incontrare qualcuno potresti abbracciarlo usando il braccio dell'altro. Qualche volta le mani ondeggiano, qualche volta una mano tira lievemente l'altra, fino alla tragedia del palo della luce che separa gli amanti.

Ma non ci teniamo per mano noi, non serve. Nulla s'infrange della nostra reciproca figura, lasciamo tra noi due tutta l'aria che può esserci tra due corpi molto vicini, come quelle sottili intercapedini tra i vetri dei finestrini degli aeroplani, che creano uno spazio di aria compressa. La notte, quando hai smesso di suonare qualsiasi cosa ti capiti a tiro, ti tengo tutta nella mia mano aperta, come se riuscissi a raccogliere il pube, le natiche, l'incavo delle gambe, tutto ciò che sento sconfinato ma in realtà si raccoglie in una mano. Poi abbandono la presa, sento la tua mano, così piccola, una mano che non contiene nulla, che ha dita sfuggenti e ruvide, da guappo di strada. Ma si compie il miracolo del tatto, sdraiate ci teniamo per qualche momento le mani, in assenza di gravità, senza temere tocchi diseguali, come le mani di due alieni che si toccano per la prima volta. Gli amanti passeggeri sono buffi, sembrano scoprire in quel momento una cosa così ovvia come una mano. (Oh senti com'è liscia, che nocche grandi che hai)
Tu vieni da una terra dove dite "mantieni", quando passate un oggetto a qualcuno per tenerlo. Noi qua diciamo solo "tieni", come se fosse scontato che si tenga con la mano. Eppure c'è una cura, un'insistenza tenera e antica in quel "mantenere".
Mantenere: dal latino manu-tenere, che nel senso proprio vuol dire tenere fermo e fisso, tenere nelle medesime condizioni.
In questo senso, nel senso di essere tenuta ferma e conservata nello stesso modo non voglio essere mai mantenuta, ma di quelle mani notturne, le tue, che non so quando rivedrò vorrei mantenere il ricordo.








martedì 31 gennaio 2017

Megera

Mia madre è una balena. La sua casa è il ventre di una balena che apre le fauci e lascia entrare tutto l'oceano di cose che ci sono. Con calma onnivora le lascia entrare. La sua placida voracità non distingue tra armadi di arte povera valtellinese, libri di auto aiuto, cibi scaduti, coperte di pile, integratori miracolosi, il mahabarata, madonne laccate, una scultura raku, cadaveri di scarafaggi, spazzolini sfibrati, specchi di legno esotici, rosari fosforescenti, teiere sbeccate, bicchiere retrattili da pic-nic, pennette usb, occhiali senza bacchetta, occhiali senza lenti, merletti stinti, merletti splendenti, fasce idromassaggio della televendita, i miei disegni, i suoi appunti meticolosi e caotici, i miei topolini imbrattati di cibo, la collezione dei manuali della giovane ragazza per bene, i manuali per il giovane manager rampante, quadri interamente ricamati al punto croce, le tarme, panetti asciutti di lucido per le scarpe con cui mi lucidavo di nero la faccia da piccola, una busta da tre chili di proteina in polvere, un salvagente sgonfio, bauli senza fondo, un piccolo sapone alla rosa in cui si intravedono i petali incisi nella polpa, ma ormai logori, fili di cotone di tanti colori che spesso collegano le cose tra di loro, come fili d'Arianna senza nessuna Arianna a reggerli all'altro capo. 

Mia madre è una balena che comunica a distanza di oceani. Non ha tempo per le pulizie. Non ne ha neanche voglia. Anzi, diciamola tutta, non saprebbe da dove cominciare, resterebbe a fissare gli oggetti, a vederne il potenziale, a immaginarne gli usi, le destinazioni, quel foulard con i fiori stampati potrebbe servire a mia figlia, quella penna scarica un giorno potrà riprendersi, quel pupazzo di paglia intrecciata potrà rendere felice qualcuno, anche e forse proprio grazie alla sua innegabile bruttezza. 

Si sentono al sicuro le cose, a casa di mia madre, nel ventre di balena, che nulla digerisce e tutto accoglie. (Come ha accolto anche me, ultima dei suoi tanti figli, arrivata molto tardi, più grossa di una balena).

Qualche volta sento mia madre girare agitata per casa sibilando a bassa voce, con la gracile aggressività che i suoi lunghi anni di collegio dalle suore le concedono, "sarà stata quella megera".
Quella megera è una piccola donna filippina, che si muove con la rapidità dei piccoli e ride con l'irriverenza dei monelli, mentre ripeta un monotono "certo segnora, va bene segnora": mia madre un Golia in collant, lei un piccolo Davide, con uno straccio al posto della fionda. A Milano si può sentire tutto lo spettro di atteggiamenti possibili per battezzare queste persone che si prendono cura degli interni milanesi, sobri e solitari: c'è chi non ha problemi a parlare "del suo filippino", anche se filippino non è, fino a quelle che imparano la traslitterazione corretta del nome dal filippino per paura di passare da sporche colonialiste. Per mia madre, questa donna che piega in modo miracoloso gli asciugamani è semplicemente "la megera". 

La megera con i suoi piccoli passi svelti prova, cumulo dopo cumulo, ogni tanto lasciandosi scappare un "segnora, segnora" di rimprovero, a disincastrare le cose, riportare una funzione, non è stolta come me, che propongo esecuzioni di massa trovando un disperato rifiuto, un irremovibile attaccamento alle riviste del 1993. Piuttosto impila le decine di bloc-notes che si accumulano in cucina, attirando più gocce di miele che appunti sensati, affianca le bottiglie, allinea i flaconi di compresse, spolverando l'ovviamente inutile, rispettando il ventre della balena. Ma l'ordine della megera gioca qualche tranello a mia madre, che invece compone delle torri di babele, dei millefoglie composti da equilibri di progetti ordinati in cartellette e fogli stropicciati, suddivisi magari da una bottiglietta di crodino e una telefonata arrivata in quel momento, mia madre gioca sul confine tra materiale e immateriale, memoria e inconscio collettivo. 

Quando sibila "è stata la megera" molto spesso l'unica cosa che può aver fatto la megera è stato di appoggiare un libro su un altro libro, specialmente sul tavolino in cucina e il tavolino in sala, i punti nevralgici, la corteccia pre-frontale della casa, preposta alla gestione della memoria a breve termine, gli appuntamenti- soprattutto quelli importantissimi che sembrano sempre sul punto di perdersi -, i concerti gratuiti, gli indirizzi di persone appena conosciute.  
La megera è il trickster, il Pinocchio con cui lotta da sempre mia madre, la mia balena buona. 

Megera viene dal greco Megaira, da megairo, invidio, sono geloso, in cui si legge anche l'idea di grande in megas: la megera era una delle furie principale della mitologia greca. Una piccola donna, che con la sua mano vispa e pulita tiene in scacco la mia grande mamma balena che le concede un solletico settimanale, una grattata di ventre, che alle volte graffia un pochino. 








 

giovedì 12 gennaio 2017

NECROSI

Completamente necrotico, dice, mentre sento il suo ferretto grattare dentro - mi sembra incredibile avere qualcosa dentro di me così duro, che faccia quel rumore di pietra, di minerale. 
Mi ero accorta della decolorazione del mio canino destro a maggio, appena tornata dalla Grecia (più avanti imparerò che si dice discromia, quando ci ammaliamo tutto diventa greco). Non è che il dente fosse malato, stava proprio morendo, era irreversibile. Avevo interrogato prima internet, che subito aveva emesso la diagnosi: necrosi. Poi l'avevo chiesta a un dentista che aveva minimizzato, facendomi una foto del dente e dicendomi di presentarmi dopo sei mesi per riscontrare eventuali differenze. Il dentista era perplesso perché non riusciva a spiegarsi la causa della necrosi. Quindi eravamo rimasti sospesi, sulla soglia, lui incapace di darmi la cattiva notizia, io completamente incapace di accettare la fine.  

Ci siamo conosciute per un laboratorio di teatro e io ti ho subito classificata come etero senza ritorno +  neanche mi piacevi. Poi tu hai cominciato a scrivermi e io, che non sono proprio stragettonata nella sezione relazioni sentimentali, non sapevo neanche come rispondere, volevo quasi farti notare l'errore, o la mancanza di fiuto, ma insomma mi facevi ridere e una sera siamo uscite insieme, perse nella città, alla ricerca di un bar di somali dove poter giocare a biliardo, ma poi i somali non ci hanno fatto giocare e siamo restate a guardarli.
Giorni dopo siamo andate a cena in un posto bianchissimo, dove tu hai mangiato come un dragone e mi hai raccontato tutto della tua famiglia. Io avevo una specie di emiparesi facciale, la bocca, con un dente un po' più scuro degli altri, sospesa in un sorriso permanente da far venire le rughe agli occhi. 
Poi tu parti per uno stronzissimo laboratorio di recitazione. 
Io rimango a Milano, scoprendo quant'è strano sentirsi innamorati a Milano soprattutto se hai trent'anni e ascolti solo la Vanoni. Una città dove la fermata Gioia, quella dopo Garibaldi e prima di Centrale o viceversa, dipende da quale direzione stai viaggiando, si trasforma per la prima volta in un sentimento: la Gioia! Come avevo fatto a non capirlo. Ed era Gioia sempre, sia andando verso Abbiategrasso sia verso Gessate. Comincio a scrivere poesie che la mia terapeuta disprezza con un cenno della testa e assoli di butoh da quaranta minuti che obbligo i miei amici a guardare, senza prendere il fatto che si addormentino come un infausto segno. 

La necrosi - mi ero resa conto un giorno in un'agnizione fulminea - non era comparsa per caso: due anni fa durante un normale allenamento di boxe, mi avevano messo davanti un tipo che aveva la furia negli occhi. Avrei dovuto subito chiedere di cambiare partner, ma ho minimizzato, vecchio rituale d'impazienza, non mi sono protetta, perché dopotutto pensavo di essere invincibile. O che se anche fosse arrivato un cazzotto sarebbe rimbalzato sul viso, sul mio viso da cartone animato, sul mio cuore che è elastico e resistente, non duro e fragile, come il mio canino. 
Quando mi ha tirato quel cazzotto ha cominciato a ridere e io mi sono allontanata subito, non sono mai più tornata in palestra. Mentre mi ricordavo del pugno provavo a ricordarmi la faccia, volevo tornare in palestra, andare da lui dirgli, ecco, ecco, vedi. Neanche lo sai e hai completamente cambiato la mia vita. Mi hai ucciso un dente! 

Praticamente non facevo altro che guardare il mio canino destro e pensare a te. Guardavo il mio canino su qualsiasi superficie riflessa, cercando di vedere se avesse cambiato tonalità dalla sera alla mattina, cercando di cambiare illuminazione e scegliendo l'illuminazione giusta nei giorni in cui non volevo pensare che il mio dente fosse morto. 
Guardavo anche te, cercando di capire se stessi diventando più scura, più assente, se stessi scomparendo. Sei tornata da quel laboratorio, di quei laboratori di teatro stronzi intitolati come fossero orazioni funebri, e ti ho vista ingiallire a vista d'occhio: comincia tutto con il fatto che uno non ti cerca o ti risponde a malapena o non si ricorda cosa piccole che avete condiviso insieme. Al test del freddo il mio canino non risponde: ai miei messaggi tu non rispondi, o quando rispondi mi sembra di sentire una cortese receptionist che mi chiede se posso esserle utile. La receptionist è il primo segno di necrosi imminente.
Poi piano piano le tue risposte si fanno sempre più vaghe, ti invito fuori e tu prima mi dici che c'è una cena con il nonno e poi tiri fuori anche un farmaco nuovo che ti hanno cambiato e ti dà sonnolenza e mi viene da dirti, va bene, bastava il nonno come scusa, non c'è bisogno del nonno sotto psicofarmaci.

Un giorno decido di andare dal mio dentista d'infanzia, quello che sembra un elfo elegantissimo con la mascherina bianca sul viso. Mi dice che è morto, ma non cambierà nulla, che il dente devitalizzato è solo un dente meno idratato, un po' più fragile, con le mani fa un piccolo nido dove sembra accarezzare il mio canino immaginario, sembra promettergli un futuro comunque dolce e protetto. 

Io in quei giorni sto malissimo perché mi sembra di non sapere più cosa sia vivo e cosa no, mi maledico perché, chi si è messa proprio davanti a quel pugno? Non mi so difendere il lato destro: ho una cicatrice dovuta a una brutta portiera che si è aperta sul ginocchio destro mentre ero in motorino a Roma, ho due denti del giudizio già cavati sul lato destro e non mi sono protetta davanti a quel diretto. Due mesi di boxe, non una grande passione e il risultato è un dente morto. Per giorni passo il lutto, il lutto per questo piccolo pezzo di me "mortificato, incapace di riprodursi" come dice l'etimologico. Tutti mi dicono che è lo stesso, che un dente devitalizzato non cambia nulla, che potrò amare, vivere, riprodurmi anche con un dente morto in bocca. Un giorno, nelle mie continue meditazioni sul dente morto, mi dico che allora sarà il mio canino destro un piccolo promemoria a futura difesa: a ricordarmi di proteggermi da chi non si rende conto di quanto sia forte il suo diretto, da chi non sa quanto io sia fragile. A ricordarmi che ciò che è duro muore. 

Scegliamo il giorno della devitalizzazione. Quella mattina passo in rassegna tutti i rituali funebri del mondo per scegliere quello per il mio canino: ci sono quelli dei vichinghi che si fanno seppellire con le proprie schiave ma solo dopo averle fatte stuprare da tutti gli altri guerrieri, c'è una tribù in Africa dove quando muore il marito ci si taglia l'ultimo pezzo di tutte le falangi, in Madagascar invece continuano a danzare con il feretro per giorni e giorni in modo che non si addormenti nella sua strada verso l'aldilà. Alla fine con la mia amica accendiamo un incenso e ringraziamo il canino per avermi servito così bene tutto questo tempo e nel mio cuore gli chiedo scusa per non averlo protetto.  
Il dottore prende un lungo binocolo che invece di guardare all'orizzonte entra dentro il mio canino, dove trova gli ultimi resti di una battaglia persa, i nervi rantolanti, e sigilla il dente come un piccolo tumulo nella bocca. Parliamo di tutto durante la devitalizzazione, parliamo della sua passione per il Tibet, della colatura d'aglio, del suo assistente peruviano che non torna in Perù da trent'anni per scaramanzia. Sembra uno di quei funerali allegri in Africa, dove si festeggia l'anima del defunto. Eccoci, dice il dentista, tutto perfetto, non cambia nulla, né per funzione né per estetica. 
Quel giorno esco dallo studio del mio dentista elfo con un sollievo enorme. Triste ma libera. 

Riguardo le poesie che ho scritto per te. Fai rima con -parola, -vola, -scuola ma poi mi rendo conto che l'unica parola che fa rima con il tuo nome è sola. Ti scrivo e usciamo. Miracolosamente ti presenti. Passeggiamo per Milano e tutto è come nei sogni di me e te che passeggiamo per corso Garibaldi, salvo che ci stiamo praticamente consegnando al patibolo. Ti racconto del mio dente morto e tu mi mostri una piccola stella d'oro che hai attaccato sul canino inferiore.
Andiamo a Corso Como 10, c'è la mostra di Araki e questa cosa rallegra entrambe. C'è tutto quel sangue, quei corpi femminili legati da corde, i fiori talmente colorati da essere lugubri. I pupazzetti dei dinosauri mutilati sono buffi. Usciamo e scendiamo in metro - non prima di aver provato goffamente a invitarti a cena ma tu hai sonno/nonno/e altre scuse -, superiamo i tornelli e io:

IO: Ti chiedo un favore ora.
TU: Cosa?
IO: Ora guardami negli occhi e dimmi che non esiste la benché minima possibilità che io e te si costruisca una relazione. 
(Sei dolce, mi guardi negli occhi e rispondi)
TU: Sono molto molto molto innamorata di una persona.

Continuiamo la conversazione senza particolari drammi, tu mi dici che ti ho dato tanto, io scherzando ti dico che la tua storia non funzionerà, tu dici che la cosa ti sta già facendo male, io segretamente ci godo, poi scopro che si chiama come mi sarei chiamata io se fossi nata maschio, come se in una vita parallela saremmo potuto essere insieme. Nei toni siamo come due persone che parlano di progetti per la serata prima di dividersi tu verso Gessate, io verso Porta Genova, tu incontrerai Gioia alla fermata dopo, io non proprio.
Sento che da qualche parte in mezzo al petto un dolore si spegne. Devitalizzato. Era quella piccola stretta di speranza che mi dava angoscia, era la possibilità di vederti ancora che mi torturava. Ora quel dolore ha smesso di esistere. Certo, quella specie di effervescenza è morta ed è morto anche qualcos'altro a cui adesso non so dare un nome. Ma almeno è finito il dubbio.
Devitalizzata. Non è la stessa cosa come essere vivi, ma all'apparenza non cambia nulla. Nè per funzione, né per estetica.

Oggi c'è anche la luna piena.  La prima luna piena del 2017. Una luna piena di luce riflessa, una luna sbiancata dal freddo, una luna che rinomino Luna del Mio Canino Morto. Che dedico a te, Piccolo Dente di Stella.

NECROSI: dal greco nekrosis, mortificazione che si riferisce alla radice sanscrita naç- perire che è in nac-ami, sparisco, mi perdo, perisco che si confronta con lo zendo naçu, cadavere sino pure al latino nex, morte.