giovedì 25 dicembre 2014

TRAMONTO

Pranziamo, è bello. Sa di buono. Regali, scarta, apri, ridi, rido, ride, esauste cartacce. Dopo pranzo io e la piccola cominciamo a cantare tuttialmare. C'è una luce che ci chiama fuori. Dai, andiamo. Noi cappotti umidi, noi con torpore ma anche un piccolo bisogno d'aria. La macchina di mia sorella: ogni volta che guidiamo insieme le due ripide salite e la strada sterrata che porta a casa sua, sulla collina, mi accorgo che lei è anche così. Prova emozioni sterrate, eppure resiste. Sballonzola, viene sbalzata ad ogni dosso, ma gli ammortizzatori per qualche quieta obbedienza accolgono l'urto. Sta quasi facendo buio. Ma andiamo comunque, come un gesto disperato, come una bella emergenza, una specie di segreto rituale che conosciamo solo noi, acchiappiamo l'ultimo lucore. In macchina rimaniamo in silenzio anche quando ci accorgiamo che il cielo sta facendo la ruota come un pavone davanti a noi: è fucsia e rosa e arancione e ci sono scìe chimiche - chimiche come te, bionda grigia - e ci sono violente piroette viola. Ci avviciniamo a Baratti, dove andiamo sempre e scendiamo dalla macchina. Ci basta poco, ci basta scendere dall'auto, accostarci al mare, sentire la sabbia sotto le scarpe, una cosa così soffice e così poco invernale. Stiamo di fronte all'acqua. Il promontorio è nero, il cielo dolce, l'oscurità delle onde del mare mi calma. Penso adesso a te, che ti sapresti divertire anche in questo momento, mentre io sono così solenne e emozionata nella mia giacchetta di pelle nera. Riesco solo a stare zitta e assorbire questo lucido mare laccato. Tu faresti una faccina buffa, una ruota - anche tu come il cielo - e poi via ai commenti inopportuni sul tramonto.
Che non è il nome giusto. Tramonto vale solo per la zona orientale dell'Italia. Perchè indica il calar del sole e degli altri astri al di là dei monti degli Appennini. Ma noi siamo in Toscana, a noi il sole cade nel mare. Non tramonta, ammara. Tramortiamo questa giornata che sempre più sembra il testo di una canzone italiana, abbraccio di lato mia sorella, appoggiamo la testa l'una all'altra, proviamo a stare in silenzio, ma senza troppo impegno, tra poco il sole si porterà via tutto, qualsiasi errore verrà  perdonato a bagno nel mare.
Andare al mare a Natale è la cosa vicina a un rituale che io conosca. Il mare, come dice Gualtieri, la più antica delle divinità.

domenica 14 dicembre 2014

BIONDA

Io e mio padre abbiamo lo stesso debole per le bionde. 
Non ricordo molto della mia infanzia, mi ricordo solo associazioni cromatiche emotive che dividevano il mondo in: Milano, mamma, mora. Londra, matrigna, bionda. Non ho mai preferito quella bionda a mia madre ma era viva l'impressione del riflesso dei suoi capelli nei miei occhi. Su entrambe le città una pioggia persistente, ma se la bionda sembrava alleggerirsi nell'umidore, mia madre annegava nella pioggia.

Photo of Daryl Hannah from Blade Runner (1982)

Vedere una donna. Se è bionda la vedi prima. Ieri sera, sapevo che saresti venuta, ma non arrivavi. Io nel frattempo provavo a interessarmi, a seguire i pezzi di letteratura underground di incredibile valore che venivano letti sul palchetto del solito posto punk dove va in scena il meglio e il peggio della mia vita di cuore. Ogni tanto provavo ad atterrare su qualche parola ma in realtà fissavo la porta tipo dalmata che aspetta il padrone. Ho incontrato amici che non vedevo da tempo, persone di un'intelligenza straziante e dal cuore infinito e non riuscivo neanche a sentire la risposta al mio - fintissimo - come stai. Sì, bene ma io stavo già fissando la porta. Ed è dura raccontare la tua vita a qualcuno che ti sta davanti e guarda dietro. Ogni tanto mi spostavo in modo da avere lo sguardo rivolto sia alla persona sia alla porta ma la persona con cui stavo parlando - Vincenzo, Andrea, Silvia, Giorgio, e chi altri, vi prego di perdonarmi - di tanto in tanto si girava per capire se avessi visto qualcuno dietro di loro, qualcuno che doveva essere Gesù o Krishna o Lady Gaga.
Comincio a vederti nella testa canuta di alcuni vecchi frequentatori del posto, gente che - come te - si è sfasciata nel tempo e nella militanza. (tu manco la militanza). 
Al 90esimo minuto mi arrendo, mi arrendo alla tua assenza e ai fuochi fatui dei tagli alla moda di milano che fanno sembrare ogni caschetto platino il tuo. Più precisamente caschetto platino argentato, con sfumatura sul collo, un punto del tuo collo dove avrei volentieri chiesto asilo permanente. 
A quel punto entri, meccanica e festosa come uno squalo in traiettoria. Vai al bancone con due amiche altrettanto biondo platino. Sembrate una congrega di cherubini nazisti. Ahi, Milano asburgica, ahi, Milano, rimmel colato di Berlino, ahi Mailand, che ossigeni i tuoi figli e li rendi insensibili all'amore a getti di cemento e design. 
Mi avvicino al bancone, il tuo biondo argentato crea vapori nell'aria, forma una specie di nube gassosa esilarante, io mi arrampico sul bancone, nel caso tu non mi avessi ancora vista. Tu stai prendendo da bere con queste tue amiche che hanno pure loro Willy Wonka come parrucchiere. Non riesco a crederci ma siete tutte il ritratto della salute cibernetica, tutte un incrocio tra Daryl Hannah in Blade Runner e san Francesco. Avete tutte un'aria annoiata e lievemente frivola, e da bionde sapete che il mondo avrà sorrisi e baci per voi. 
Non riesco a raccontare cosa sia successo dopo perchè è davvero impulsivo il protocollo che ho seguito. So che mi sono svegliata con una netta sensazione di biondo. Ma di un biondo così freddo.
Dal latino BLUDUS, che alcuni spiegarono con BLADUM, biada. Ma la verità è che questa ossessione di biondo è partita in Germania, i primi a inventare la decolorazione e la tinta bionda, forse perchè avevano visto dee bionde come te: in quel caso però l'etimo è BLODE, che significa debole, nel senso di molle, delicato.  Infine, altri riprendono BLONDEN dall'anglosassone che deriva a sua volta dall'alto tedesco BLANTAN (vedi blend, in inglese, non a caso anche legata al mondo dei liquori) verbo che significa mischiare, cioè di colore misto, grigio. Come sei tu sullo sfondo di questa città.

(Anche se una parte del mio cuore ancora spera sia la voce latina ABLUNDO, metatesi di ALBUNDO, da ALBA, con caduta della A, che accosta BIONDA agli aggettivi francesi come ALBERNE e AUBORNE, aggettivi dei colori che hanno il color dell'alba, così come, al risveglio, ho visto i tuoi - arruffati e arresi - nella prima luce del mattino.)

mercoledì 10 dicembre 2014

BOXE

Provo una palestra di boxe che mi hai indicato, davanti a casa, proprio due passi. Sia perché sono incazzata con te e ho bisogno di lasciare andare la rabbia, sia perché ho voglia di te e quindi sublimo con la boxe. Ho sempre il trauma di inizio corsi quindi avviso tutti, mando messaggi condividendo la mia paura, segnalo il mio ingresso. Ricordo le lacrime a sei anni iniziando basket. mai stata una bambina pronta per lo sport.

La palestra si chiama Ursus. E' dentro il cortile di un cortile. La porta di metallo si apre su una sala da film americano. L'unico dettaglio che nei film americani non si percepisce è l'incredibile odore di sudore, una coltre impenetrabile di testosterone quasi densa, da svenire. Fuori freddo, dentro sudato appiccicoso. Davanti a me, in mezzo a decine di uomini con casco e guantoni, due donne lottano. Due donne che forse fuori lavorano in ufficio, ma qua dentro si picchiano. Si picchiano davvero.

Il ragazzo mi dice prendi la borsa e vieni su. Andiamo su, mi guarda, mi dice: sei allenata? Hai fatto qualcosa? Io, sorridendo, ma, sì, yoga, pilates. Lui sogghigna e mi dice, ok, ogni tanto ti dirò di fermarti, tu fidati.

Sono l'unica donna oltre a un'altra, una napoletana bellissima che ha uno stile pazzesco. (che piaga sti napoletani bellissimi con uno stile). L'istruttore, piccolino, tracagnotto, ma con uno sguardo calmo e severo, ci fa fare un riscaldamento da guerrilla zapatista. Io però, fanculo, con il mio yoga pilates qualcosa ho racimolato nel corpo e riesco a far almeno la prima metà di riscaldamento: salto della corda, saltelli con le braccia che toccano sotto la gamba che si alza, piegamenti, barbis, che è una cosa massacrante cioè: il corpo scende a terra in una flessione e in un solo movimento si risolleva e tira su le mani sopra la testa e giù di nuovo. flessioni, flessioni che io -vergognandomi - faccio appoggiando le ginocchia.

Poi comincia a farci entrare nelle mosse. falsa guardia. scarica di pugni. mi accorgo di quanto sia simile all'adolescenza questa scarica di pugni nel vuoto. Quando hai quindici anni e ti alleni a "prendertela", a provare risentimento, ad abbaiare al vento. Che poi arriverà il momento di prendersela davvero con qualcuno. Dovevo scoprirlo a trent'anni che è naturale volerlo fare, voler tirare un cazzotto, un pugno.
E' chiaro, no?
Sono l'unica mancina. Sono donna, mancina e probabilmente la persona più incapace di difendersi a questo mondo. La boxe mi si addice, mi attrae, mi eccita.
Box, da cui deriva Boxe, ha tre etimologie diverse e vuol dire un milione di cose:
uno spazio cuboidale,
un cabinotto teatrale,
una trappola,
l'area di penalità,
la televisione,
la vagina,
la bara,
una tortura,
sospensorio per i genitali,
pesce mediterraneo,
cespuglio di bosso,
strumento musicale fatto in legno di bosso,
ma soprattutto, nel caso che ci interessa, deriva dal verbo boxen, to beat, colpire, battere, e box, a blow, un colpo. E' affine all'olandese boke, sempre blow, all'alto tedesco buc e ritrova echi nel greco antico PUXS, che poi con noi diventerà pugilato.

Imparo la guardia da mancina, il jab, il diretto, il gancio. Metto i guantoni e comincio a prendermela con una sacco. Jab, diretto, gancio. Forte, ma proprio forte, la forza parte nei piedi. Spalle strette come se stessi passando per un corridoio minuscolo, sfilare indietro la spalla mentre il braccio tira avanti il pugno. Mi guardo allo specchio e mi trovo molto convincente. Pugile narcisista. La bambina pugile, come una poetessa che amo.
Jab, diretto, gancio. Saltella, saltella avanti e indietro. Jab, diretto, gancio. Il sacco diventi tu, un'altra prima, tanti altri prima ancora, saltella, carica, jab, diretto, gancio. Entro nell'ipnosi dei pugni.
E' chiaro no?
Il sacco diventa:
mio padre che non c'è stato,
la danzaterapia,
lo yoga e il pilates - saltella, jab, diretto, gancio -
le sigarette ad aspettare alla finestra,
le attese,
i viaggi inutili,
gli obblighi,
la compiacenza,
il curriculum,
le esperienze formative,
gli errori,
il maestro di cui mi sono innamorata,
la mia lacunosa vita sessuale,
stare seduta tante ore di fronte a uno schermo,
facebook,
il capitalismo,
l'anticapitalismo,
gli incidenti stradali,
la depressione di mia madre,
l'acne,
tutte le frustrazioni neanche riconosciute,
tutto quello che non ho saputo o voluto fare i miei pugni lo battono e lo perdonano.
Sento il corpo riverberare come una campana, le ossa che oscillano ad ogni colpo, come se qualcuno, io stessa, mi stesse scuotendo per dirmi qualcosa. Quello stato di lieve istupidimento è uno dei regali più belli di questo strano anno.

Volevo ringraziarti, saresti molto orgogliosa di me con i guantoni a prendere a cazzotti un muro.
La napoletana in spogliatoio - uno spogliatoio quasi vuoto quello femminile, solo tre cappotti - mi dice che lo fa tre volte a settimana ma se potesse lo farebbe tutti i giorni. Si picchetta la testa con due dita, come fai tu, e dice: è  qui che mi serve, mi rilassa, è tutto qui.
Box, tante cose, tante cose, ne nomina molte, ne percuote altrettante.
Mi faccio l'abbonamento, sapete dove trovarmi.




lunedì 8 dicembre 2014

CORPO

Sei la terza donna di cui conosco il corpo. La mia guancia ha accarezzato la tua, lenta, come se volessimo tentare l'allunaggio di ogni cellula sulla pelle dell'altra. Ho baciato quell'osso, commovente, quello che sporge sul decolletè e crea una specie di fossa lunare. Ho sentito il calco del gluteo nella mia mano. I tuoi seni, di nuovo commoventi.
Io spesso non sento il mio corpo con un altro corpo. Mi fiondo sull'altro corpo girando manopole, provando sfregamenti, esercitandomi e credo che questo interferisca con tutto perchè è come se mi assentassi dall'altro per giocare al mio personale flipper. Chiamatela insicurezza ma io ancora non riesco a guardare proprio proprio l'altro negli occhi.
Ancora peggio se l'altro vuole toccare il mio corpo. Mi dico, ecco, adesso scappa, adesso vedrà il mostro. Mi posso sentire comodino, o iguana o paracarro, ma non un corpo, di certo non un corpo desiderabile. Davanti al tuo - che è un corpo da levare il sonno e la pace per quanto è bello e vivo - stabilisco un patto. Mi dico: ti prego non fare come al solito che stai nella testa e poi l'altro lo sente e tu non ti lasci mai andare e guardachebellosarebbefarelamoresetutilasciassiandare. Perchè io sono talmente spaventata e inconsapevole quando faccio l'amore che non riesco a sentire se l'altro è con me o no. Chiaro mi metto lì e con l'ostinazione di Indiana Jones ti faccio arrivare all'orgasmo, che tu sia uomo o donna, a costo di farmi rincorrere dagli indios, scappare da un tempio che sta per crollare o mangiare serpenti vivi. Mente allevata a conseguire risultati, come posso godermi tutto il resto se so che l'obiettivo è l'orgasmo. Poi c'è l'altra solita questione fastidiosa: io ho fatto il bis di corpo, non mi bastava un corpo solo ne ho dovuto aggiungere un altro sopra che mi pesa addosso. Tu hai un corpo che guizza via, hai centinaia di corse dentro, un tremolìo - adorabile - che è il riverbero di mille avventure. Il tuo corpo, fiducioso e addestrato, condiviso, distrutto e ricomposto. il mio corpo pesantepiombo, cosce chiuse e ridondanti, divani, fette al latte. Tu sei la vittoria della città di destra, ginnica, muscolare, che crede nell'educazione fisica e ha sani valori. Io sono la sconfitta della città di sinistra che ha confuso cultura con accumulo di dati e pensamenti e ha dimenticato il corpo.
Stamattina tu: ok, bellobellissimo, ma senzaimpegnograzieancoraciao
E mi lasci anche un appunto personale sul mio rapporto con il corpo: il solito, tipo guarda che sei bloccata. Grazie, gentile, prendo nota. 
Cammino per la città e mi ritrovo a risentire la tua pelle, la tua guancia, la tua pancia, il tuo ombelico rabdomante.
Ripenso ai nostri corpi scambiarsi informazioni. 
Ho provato a rallentare, a restare, a sentire. Questa volta pensavo di essere rimasta nel corpo, cristodiddio, quanti laboratori di teatro e propriocezione thailandese e yoga cibernetico devo ancora fare per ESSERE NEL MIO CORPO?
Tu, ieri sera, parlando con due dita ti picchietti la testa per dire "è tutto qui". Se la testa decide di correre maratone, il corpo lo fa, se la testa decide di fare mille flessioni, il corpo lo fa, se la testa decide il corpo fa. Io sono invece di quella parte di umanità che non riesce a non ascoltare le strane compulsioni del cuore e aspetta invano, come un regalo promesso, il giorno in cui davvero, sta minchiata di ascoltare il proprio cuore porterà risultati. Il mio cuore ha corso maratone e centometri, fatto contorsioni, ha fatto la verticale e il salto in lungo, ma non è mai riuscito a convincere il corpo a seguirlo, a fidarsi.
Aspetto ancora il giorno in cui tutto questo allenamento del cuore darà corpo: CORPO che deriva dal latino CORPUS, che i filologi approssimano all'armeno KERP, forma, immagine, dalla radice indogermanica KAR, fare, comporre.  Pare si colleghi anche il greco KRAINO, creare. Il corpo si fa quindi, non è qualcosa che capita. Non è destino ineluttabile. E' pratica, si fa il corpo. E' tutto ciò che si vede. E che ora, del tuo, non si vede più-


giovedì 4 dicembre 2014

PUNK

Ieri ti ho raccontato l'etimo di desiderio, le sue due versioni. Il mio cavallo di battaglia. Ormai ho imparato a raccontarla con tutte le pause drammatiche, con la giusta calma e le svolte anticipatorie. Milano è bella ed elettrica quando giro con qualcuno che mi piace. Siamo passate dal deposito dei tram dietro i navigli, un posto dove avrei voluto portare qualcun altro, ma tu sei qui e va benissimo mostrarlo a te.
.
Giriamo e arriviamo in un locale dove andavamo nei primi anni d'adolescenza: debutti di tanfo di birra, giacche sporche e sbocco irruente. un posto in cui io ero stata una volta sola e poi mai più perchè non sapevo con chi andarci e in ogni caso mi annoiavo.
Ero uno strano tipo di punk: una punk da vetrina. Mi sarebbe piaciuto pogare, ma avevo paura di farmi male. Mi sarebbe piaciuto drogarmi per poter raccontare eroiche storie di droga ma non avevo abbastanza soldi  per drogarmi, non avevo abbastanza creatività per trovare i soldi delle droghine o genitori distratti da taccheggiare.  mi sarebbe piaciuto mettermi in qualche guaio ma non avevo amici temerari da sfidare. Mi divertivo con poco, tanta televisione e furtive, già colpevolissime, sigarette fumate di nascosto. 
Tu invece facevi per davvero: pogavi, saltavi, urlavi, ti drogavi, ti divertivi fortissimo ed eri stupefacente.
Allora ho pensato che fossi una punk.
Poi siamo andate a vedere un incontro con un regista, un tipo che ha fatto una delle interviste più famose a syd e nancy. Un tipo che ha solo amici morti di droga o in circostanze misteriose, che racconta solo storie estreme e ha i capelli bianchi ma un caleidoscopio colorato al posto della memoria. 
Le origini della parola punk, che in inglese significa senza valore, cattivo, spregevole, sono forse da reperirsi nel dialetto Algonquin del Delaware, dove ponk significava polvere, cenere. Il sostantivo PUNK viene da PUNK KID, ovvero l'assistente del criminale, che è entrato in uso all'inizio del Novecento e ha subito un'impennata nell'utilizzo dal 71' in poi quando fu utilizzato per la prima volta nella definizione di punk rock in un'intervista di Dave Marsh a Rudi "Question Mark" Ramirez. 
Non sono mai riuscita davvero ad essere così meravigliosamente spregevole. Avevo sempre una casa calda, una tazza di tè, una mamma gentile a cui non sapevo rinunciare. 
Però ieri sera con te, a sentire le storie di Kowalski, per un secondo mi sono immaginata ai bordi di una strada, strafatta a guardare il mondo con quello sguardo selvaggio e vuoto che solo un punk può avere.

venerdì 7 novembre 2014

SORPRESA

Dal latino SUPERPREHENDERE, prender sopra. Composto di PRE, dinnanzi, e HAND, radice ariana da cui derivano molte parole: edera, get (in inglese), hand cioè mano. E' quindi cogliere all'improvviso. Non è molto interessante come etimo da scavare, o almeno non oggi. Però una lettrice mi ha chiesto di scriverne. Io le ho detto che non era interessante e che non l'avrei fatto ma ora le faccio una sorpresa. 


E poi ci sei tu. Al telefono. Io fuori, fa freddo e dentro c'è un orrendo gruppo punk. Quindi meglio star fuori in terrazza a parlare con te. 

"Ma è una sorpresa", ti dico. 

E spero che una sorpresa ti faccia venire qui. E tu mi dici che comunque non puoi venire. E io insisto e poi spazientisco e dico, be' tanto non saresti neanche in grado di goderti una sorpresa che ha a che fare con lo stare bene. 

"Le terme!", dici tu. 

E io dentro ammutolisco. Nell'ordine penso"mica scema la ragazza". Poi penso che ho la fantasia di un ragioniere brianzolo, che regala alla moglie un ingresso di coppia alle terme con triste calice di champagne e tu non sei mia moglie né tantomeno brianzola. Penso che è la seconda sorpresa che ti sciupo. La volta prima ti avevo detto che volevo comprarti i biglietti per il concerto dei Mogwai. Quando te l'ho detto non li avevo neanche comprati. (Neanche stavolta)  Ma ero arrabbiata e speravo ci rimanessi male. Quante sorprese si possono sciupare prima di diventare un'artista della delusione? Mi ricordo mia madre, che non riusciva mai a fare una sorpresa. Ma lei lo faceva in modo diverso, si dimenticava di dover serbare il segreto, un dono di Natale, una nascita, un progetto. A un certo punto la sua incontinenza è diventata sorprendente perché se qualcosa non doveva essere detto lo diceva, altro invece, che doveva circolare, veniva taciuto. 
Parliamo ancora e senza sorprese si chiude la telefonata, tu non vieni e non mi vuoi. Non sono neanche riuscita a farti una sorpresa. Non sono riuscita a prenderti (con le mani contenute nell'etimo di prendere) e neanche a coglierti all'improvviso.
E' stata una sorpresa essere così incapace di farti una sorpresa. E' come trasportare un uovo per chilometri e farlo cadere nell'ultimo metro. E' come trattenere il respiro perché c'è un ufficiale della gestapo nella stanza che vuole catturarti e improvvisamente starnutire. E' la stessa impazienza che ebbe la mia bisnonna quando tolse il gesso prima del tempo al suo figlio per vedere se la cura aveva funzionato e sollevandolo per le braccia lo rese gobbo per sempre perché le ossa non avevano ancora calcificato. Lo chiamarono il gobbo per il resto della sua vita, ma era il più furbo di tutti .

Sorpresa è come essere incinta di qualcosa ma il figlio non è nella pancia, è nel futuro. Poi tu mi fai una sorpresa. Ti dico qualcosa che qua è troppo imbarazzante per me da dire (come quasi tutte le cose che ti dico) e tu mi dici:

"Leggi Un uomo solo, di Isherwood".

Tu, figlia di professoressa, senza possibilità d'appello, da sempre la migliore, circondata di alunni sempre impreparati, hai questo istinto molto preciso sui libri. Non credo tu abbia sviluppato altro finora, ma quello sì, è l'intuito più  benevolo che hai a disposizione, spaventata come sei di tutto il resto. Oggi nello strazio di nessuna-sorpresa-di-te-che-vieni-qua, vado al libraccio. Giro gli scaffali dei volumi usati e poi lo vedo, in un angolo, nell'ultimo ripiano in basso, quello dove abitano i folletti. Mi chiama. Bey, eccomi, comprami. Sono Un uomo solo di Christopher Isherwood. Mi metto a ridere in mezzo al libraccio, vado alla cassa e vorrei dire alla cassiera, sa cosa mi è successo? Lei lo sa da dove viene questo libro? Questo libro lo ha messo lì l'Universo! E lei mi direbbe no, è solo il romanzo più riuscito di Isherwood e non è così infrequente. Io le direi, no guardi che per me tutto questo accade per un motivo, cioè non è casuale, non è solo un altro evento nel mondo. Ma oggi preferisco tenere il segreto. Tenere la sorpresa. Comincio a leggere e non c'è niente intorno a me che parli di una sorpresa, non ci sono scoppi di risa, e grandi oooooooh di stupore o accenni di spavento. Ci sono solo io, che leggo camminando al galoppo urbano eppure mi sento luminosa come una medusa. Non credevo un cuore potesse sprigionare tanta luce. 







martedì 28 ottobre 2014

CATTIVA

Eravamo in una posizione di equilibrio un po' complessa e uno di noi è caduto di lato, dopo aver tentato penosamente di tenersi in equilibrio. Nella luce incerta della sala e con gli occhi velati di sudore mi pare di aver visto Adam, il mio sublime istruttore di pilates, ridacchiare. Da Adam non mi sarei aspettato niente di meno. E' cattivo. 
E' figlio di Ursula, nipote di Crudelia e cugino di Malefica. Ha ridacchiato compiaciuto, come se stesse aspettando che accadesse. La colonna sonora di Rosemary's Baby nel frattempo allietava stiramenti e flessioni. Sebbene io adori Adam una parte di me ha provato tristezza, come sempre provo tristezza quando vedo qualcuno godere per le difficoltà altrui. E' una delle cose che non sopporto, insieme a 1) non frequentarla più e non sentirla più 2) lavare i piatti dopo cena e 3) la schiavitù nell'America del Nord.

Mi sono ricordata della grazia dei cattivi. I cattivi sanno sempre dove stare, hanno direzione chiara, così precisa. Mi chiedo come facciano i cattivi a sapere sempre così precisamente dove collocarsi. A prendere la mira con così tanta prontezza. Io mi ricordo che da piccola non avevo tempo di essere cattiva, c'erano troppe cose da fare. 

orange-is-the-new-black-canceled-hoax-laura-prepon-taylor-schilling-netflix.jpgL'etimo di cattivo ha allargato, anzi stravolto, la mia prospettiva: cattivo proviene dal latino CAPTIVUS, cioè prigioniero in guerra, da CAPTARE, impadronirsi, che a sua volta viene da CAPERE, prendere, con il radicale greco KAPE che indica un oggetto su cui si ha presa, un manico o un ansa. 

In antichità, quindi, il cattivo era colui che in guerra si arrendeva al nemico come schiavo e che per estensione è diventato sinonimo di malvagio, abietto, pervertito, sgradito, disgustoso. Nella mia solida formazione catto-disneyana, il cattivo era colui che nasceva in quel modo, era già cattivo, arrivava cantando progetti cattivissimi.  Ma la parola cattivo si riferisce invece a un passato di prigioniero, a qualcuno che per sventura o per danno subìto si ritrova prigioniero morale di un risentimento che lo paralizza, obbligandolo a guardare ostinatamente il proprio nemico. (Nei casi più gravi è cattivo chi vede solo nemici). Sta quindi fermo in un punto e non esplora altri orizzonti che l'altrui debolezza. Ha quindi visione e controllo più stretto del buono che invece corre libero verso orizzonti che sempre lo abbagliano. 

Molto interessante è anche l'origine di EVIL, inglese per malvagio, rintracciabile nel greco hypo, nel sanscrito upa e nell'inglese up, ad indicare quindi un superamento dei limiti, uno sconfinamento, simile a quello che fa Caino quando uccide il fratello Abele per superare i confini dell'obbedienza.

 --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Tu: eh sì, qua si fanno le quattro tutte le notti.
Io: hey, ma devi studiare! E poi non troppi amanti!!
Tu: no, nessuno.
Io: non ti credo.
Tu: no, nessuno, per ora.

Tu cattiva, tu molto cattiva.

lunedì 20 ottobre 2014

PAZIENTE

Ci sono delle immagini che compaiono come cartoline quando penso alla parola paziente. Spesso è una donna vestita di nero, da testa a piedi, seduta con le braccia conserte su una sedia di legno appoggiata al muro di una casa. E altre associazioni tutte spesso legate al dolore. Pazienza è qualcosa che tiro calci all'aria ogni volta che la sento. Pazienza è il rimprovero tatuato sulla nuca da mio padre, forse l'unica forma di rimprovero. Ma è un'associazione etimologica drogata dal mio contesto, dal mio immaginario, dalle mie esperienze. C'è una lettura ampia di pazienza che non ho mai avuto la pazienza di esplorare. 
Ok, ora saltiamo indietro di quindici anni. (cioè dove sono rimasta nel mio sviluppo emotivo) qualcuno - un professore? una professoressa? - non so, qualcuno dice: ragazzi l'etimologia di pazzo è bellissima, è qualcuno che sente troppo. (Quel momento fatale ha determinato conseguenze disastrose e giustificato molti gesti che ancora mi imbarazzano).
Sente troppo perchè deriva dal deponente PATIOR in latino soffrire, dallo stesso radicale di pathein, in greco---- sentire, da dove deriva paziente.
Questo sentire in greco è specifico: è sentire un'intensa emozione. La nostra lettura di intensa emozione è stata nel tempo impacchettata nel dolore, questo impaziente vizio occidentale di far coincidere il senso di una parola con il suo acme esperienziale. Dove pathein conteneva universi di "sentire": conteneva quella struggente sensazione di impotenza che mi stringeva il cuore alla sera aspettando la mamma, quel gioco che il tempo faceva con me (tornerà?) e tornava sempre, ma alcuni minuti erano fortissimi.
Pathein contiene quel formicolìo di me seduta al banco che smànio per qualcos'altro che vorrei fare e non so cosa sia. Pathein contiene il tempo tra un messaggio e l'altro, quello in cui penso a lei, anticipo, immagino, sento. Impaziente è saltare i passaggi, è "dammelo subito", "quando arriva?", "non funziona, cazzo".

Invece è così che mi suggerisce di essere il mondo: paziente, ma non perchè attendo, piuttosto perchè sento.
Paziente è quindi colui che dal medico, con il tocco del medico, sente di nuovo il proprio corpo, riprende l'intensa sensazione di avere un corpo, forse proprio perchè malato. Il dolore del corpo essendo una specie di richiamo. "Hey! Mi senti? Sono qui, sono il tuo corpo!"

Paziente come sentire ogni momento del processo e dilatare la maglia del tempo.
Paziente come preferire tutto quello che viene prima di quando succedono le cose.
Come dice la mia maestra Maia, quando si aspetta senza aspettare.
Poichè sono paziente non aspetto seduta su quella sediolina vestita di nero, là non si sente niente.

lunedì 6 ottobre 2014

stanca












































quando mia madre era stanca non lo diceva a nessuno. Non era di quelle che va in giro a dire quanto sono stanca. Probabilmente non se ne accorgeva finchè non si addormentava e quindi non se ne accorgeva fino al risveglio e a quel punto era riposata e non aveva quindi motivo di accorgersi nè di comunicare uno stato di stanchezza. 

Per me era molto emozionante guardarla dormire. Se si addormentava davanti alla televisione - qualche volta con le braccia conserte -  la stavo a guardare, aveva un'aria così tranquilla da non sembrare davvero stanca, neanche quando dormiva. Da sempre, da allora, stare vicino alle persone che dormono mi riempie di emozione, le veglio, le proteggo, tutto si fa molto misterioso ma senza oscurità, come se diventassi la mamma di chi dorme. 
Io invece - che sono nata stanca - ho passato buona parte del mio tempo a nominare i modi del mio essere stanca e ho faticato a trovare il comune denominatore della stanchezza fino a quando ne ho trovato l'etimo. Sono stata stanca per eccesso di movimento e stanca per deficit da movimento. Sono stata stanca per essere stata troppo sola e stanca per essere stata con troppe persone. Mi sono stancata per aver atteso e per non aver avuto tempo di attesa. C'è la stanchezza - colossale, dichiarata - di una giornata che non voglio cominciare e la stanchezza - repressa, negletta - di una giornata che non voglio finire. Ho provato la stanchezza di troppe cose da apprendere e la stanchezza di non trovare stimoli che mi dessero senso. Mi sono stancata a cercare l'attenzione di una persona e a subirne troppa. ho sentito la stanchezza di tutta una vita in un pomeriggio. E comincio a sentire ora la lieve stanchezza di un pisolino pomeridiano che forse ho mancato alla materna. 
Tutto questo ha a che vedere con la parola che nasconde una specie di inganno di passi, una lieve sostituzione. deriva infatti dal latino STAGNARE, far rimanere fermo, stagnante. Che a sua volta deriva da STAGNUM, acqua ferma. Con STANCA è avvenuto il fenomeno della dislocazione della nasale, come se la n si fosse stancata di farsi spiaccicare dalla g e avesse preso il sopravvento e la g per il dispiace d'essere stata sopraffatta fosse diventata una c. Si presenta anche in francese questo ballettao dove stagno diventa étang. 
Acque ferme quindi. Ogni volta che qualcosa comincia a ripetersi e a non cambiare, a calcificare lo stesso stato, diventa stancante, spossa. Non è quindi la fatica ma la ripetizione della fatica, la noia, l'assenza di cambiamento, di ritmo che mi stanca. Ora per esempio che sto cercando una chiusa a questa voce, qualcosa che possa ravvivare il senso di quello che dico, ora mi sento stanca perchè forse sto ripetendo lo stesso brusio che mi ha condotto qui. ma c'è quella speranza, quella tensione che mi suggerisce che può esistere qualcosa, che si può ancora incuriosirsi dei piccoli tragitti della mente che seguo senza fatica, trovando nuova energia. la stanchezza è quindi acqua che stagna. il riposo è quindi acqua che scorre.  


mercoledì 1 ottobre 2014

PALESTRA

Leggo un libro in cui la protagonista guarda la sua amica Connie, una sera mentre si annoiano insieme in camera. La protagonista pensa che non vuole essere come Connie che divora vassoi di dolcetti e poi fa i salti in camera. Dice di volere di più di quello. E la sera stessa si avventura nel letto di un ragazzo con cui farà l'amore. Li chiama "jumping jack", i salti di Connie. E' quell'esercizio in cui con un salto apri il corpo a x, portando le braccia in alto a v e le gambe divaricate. So che si chiama così perchè vado in una palestra dove ci fanno fare i jumping jack.
I jumping jack, gli squat, i fly back, roll-up, i crunch, sono diventate le mie istruzioni minime per resistere al crollo. Il mio antidoto alla stasi, al vuoto e ai biscotti. Chiudermi in una sala con decine di sconosciute che non frequenterei mai - e con cui non devo necessariamente parlare - con una musica massacrante a strizzare i muscoli (strizza! resisti! controlla!) sembra essere la soluzione migliore che ho trovato finora per andare avanti.
E infatti scopro che PALESTRA deriva dal greco PALAISTRA, composto di PALE, lotta, che però contiene PALLO scuotere, ed è quindi una lotta che scuote, agita, preme. Agli inglesi abbiamo lasciato la GYM, da gymnazein, il luogo dove ci si esercita, dove si viene addestrati. Noi ci siamo tenuti il luogo della lotta. 
Ostaggio di istruttori psicotici che usano espressioni come "andiamo a far lavorare" o "andiamo a distendere"o "la perfezione esiste", tutte noi ci compriamo una dose di spossatezza e di oblio nel modo meno avventuroso possibile. Dopo un'ora di gag io ho dimenticato tutto,  il mio nome, il mio generico inquinamento esistenziale, persino lei. E ben venga l'istruttore checca che si fa chiamare Adam e mi tira più in alto la gamba intimando il silenzio. Dio sia lodato per ogni giro di passè sullo step, per ogni attraversamento, per ogni serie di taglienti addominali. E infine, venga a me ogni orrendo brano di dance anni novanta remixato: perchè diciamocelo, nella palestra qualsiasi cosa, per quanto innovativa, ha il suono degli anni novanta. 
La lotta è ingaggiata, è una lotta a qualsiasi infiltrazione di dolore. E' una lotta al linguaggio, alle sfumature, persino a tutto ciò che esploro fuori (ascolto, percezione, attenzione, intuizione), tutto viene sbranato dalle fameliche istruzioni, dagli affondi, da corsi che hanno nomi come bodyattack e body pump. Dentro di me si agita la lotta più forte: voci che mi dicono chiaramente "ma non è questo il mondo che desideri!", "tu non parli così!", "tu non sei un pollo da batteria", "la palestra sta alla vita come la masturbazione al sesso, non lo vedi che è pura simulazione, è solo strumentale?". Eppure. Eppure.
Ma io in palestra ci torno volentieri. Negli anni, ad ogni caduta, ad ogni giro di smarrimento, la palestra, con quel suo sorriso sereno, plastico, totalmente indifferente ai tremolii dell'anima, mi ha sempre accolto senza fare domande, senza chiedermi niente, lasciandomi uno step o dei pesi da spostare, un phon per asciugarmi i capelli e un bagno turco dove piangere. (E non so dirvi perchè ma io nel bagno turco ci piango proprio bene).
Ogni tanto, con occhi bovini dopo quaranta minuti di saltelli e resistenze e flessioni, incrocio lo sguardo di un'altra e per un secondo esiste la possibilità di uno scambio fraterno, una solidarietà così preziosa proprio perchè rara- 
Poi l'istruttore urla "da capo!" disegnando con la mano un cerchio sulla testa. Allora ognuno ritorna al proprio dolore e la mandria ricomincia a correre.

Appunti privati che non so dove mettere:
che questa sia, in senso stretto, la sola fulminante maledizione che possa io mandare in tutta la mia vita. Perchè per colpa tua per un mese mi sono svegliata alle sei di mattina e ho seguito un'ora di gag con un'istruttrice indemoniata e musica techno come se tuonasse. Per colpa tua - per dimenticarti - ho fatto zumba (cristo, zumba!). Per dimenticare te - e questo non te lo perdonerò mai - ho dovuto accettare l'aberrazione sincretica del piloga: il pilates con yoga. Che tu sia maledetta per questo, ti auguro crampi incontenibili e istruttori mollicci. 

lunedì 29 settembre 2014

NEUTRO

Pensavo, mentre giravo in senso antiorario per percepire il passaggio dal giorno alla notte insieme ad alcuni amici sul tetto di Macao, che c'è qualcosa di meraviglioso nella parola neutro.
Ho subito immaginato ipotetici collegamenti tra neutro, nutriente e natura. 
Ma il fidato etimologico mi ha subito smentito dimostrando la distanza tra i termini, di diversa specie come gli ovipari, i mammiferi e i batteri. Dove natura infatti è natus con -urus come suffisso del participio futuro mentre nutriente è verosimilmente legato alla radice NA, NU, colare, stillare.
Risolta la tensione unificatrice ho però in ogni caso serbato la bellezza dei suoni e del senso che per me collega i termini. 

Per esempio pensavo a un amico che quella stessa sera mi ha poi abbracciato, eravamo in silenzio da molte ore e ci siamo sdraiati l'uno accanto all'altro ed eravamo neutri ma in contatto. Non c'era affetto nè slancio di tenerezza. Era neutro il suo sostegno. neutralizzava il mio pasticcio doloroso dentro. Ed era nutriente perchè era neutro. Era l'equivalente di un riso in bianco emotivo.
Neutro.
Che non prende parte fra i contendenti. tipo la Svizzera.
In grammatica si dice del genere de' nomi, nè maschili nè femminili. Da piccola il neutro è probabilmente stato il primo termine a farmi nutrire dubbi e perplessità circa la divisione dei generi. Era evidente che ci fosse una rispondenza tra il femminile nei nomi e il femminile  tra gli umani così come di un maschile nome e un maschile uomo. Ma la domanda soffocata e mai proposta all'insegnante, che vi dico aveva poca pazienza per i miei dubbi, era proprio dove fossero finiti i neutri. 

Poi ho scoperto che i neutri esistono eccome e il termine neutro non è per nulla neutro. Così come è una cazzata che la Svizzera è neutra-

Contiene una domanda (eccola, la domanda nascosta). Anzi la domanda in sè è neutra perchè contiene la possibilità di due o più risposte. Ma il termine neutro ha delle conseguenze, cova dei cambiamenti, il neutro nutre una scelta.
Il termine neutro viene infatti dal latino neutrum, accusativo di nèuter, composto di NE, non e UTER, che sta per CUTER in greco KOTEROS che specchia il sanscrito KATARAS chi de' due e - nientemeno - che col gotico hvathar (vedi poi avatar) dalla stessa radice sanscrita KAS, chi?
Neutro è un respiro prima della scelta, è la quiete prima della tempesta, è l'aurora ancora incerta, è un moto profondamente democratico.
Se mi vedete con gli occhi un po' spenti, il viso amorfo e il passo lento è possibile che stia covando una rivoluzione. Oppure sto per innamorarmi.

appunti privati che non sapevo dove mettere:
tu: se ti chiedo di non scrivermi è perchè persino vedere il tuo nome nella casella mail neutralizza ogni tentativo di neutralità. (e in questi giorni se non sono neutra sono in lacrime) 
Se provo a restare neutra è perchè lascio al tempo di darmi una risposta.
kas, chi?
tu, invece: se mi trovi un po' neutra ora che ci siamo appena conosciute è perchè mi serve restare nello spazio tra due risposte.  Con chi è appena andato via ho risposto troppo in fretta e ho sbagliato e mi sono fatta male. Abbiamo neutralizzato la storia, perchè come in chimica, abbiamo messo troppo acido e troppa base e le proprietà di entrambe si sono cancellate. Tu invece mi sembri una buona soluzione (e sei proprio carina) quindi preferisco prima studiare per bene la composizione chimica.