domenica 15 febbraio 2015

slavina

dicono che le slavine annunciano la primavera.
dal latino tardo labina, derivazione di LABI, ossia cadere, scivolare.


Dicesi slavina:
piccola ma pericolosa valanga, che di solito scende da pendii laterali scoscesi delle montagne, per lo più durante il disgelo invernale.

ma pericolosa, dice.
piccola - ma pericolosa.
siete sempre pericolose, voi piccole.
per lo più durante il disgelo invernale.

io sono una montagna con pendii scoscesi.
(scoscesi sono tutti gli incavi del mio corpo, carne a oltranza, pornoargilla tremolante).

noi montagne ci facciamo fare qualsiasi cosa. E' il nostro stare montagne, è il nostro offrire superficie e spazio alle slavine. E' il nostro offrire catastrofi in caduta libera. Noi montagne permettiamo stragi senza fare assolutamente niente. Se ci vedono vacillare, se ci vedono ondeggiare, pensano sia la terra che ruota sull'asse. ci vogliono millenni e migliaia di slavine ma pezzetti della montagna si sgretolano e rotolano avvolgendosi alle valanghe di neve che ci attraversano, è così che strato a strato, pietruzza dopo pietruzza, voi slavine ci scavate via e ci portate a valle. 


vorrei
qui per effetto
della gravità sintattica
farvi sentire il ruggito delle slavine,
una galoppata di lacrime, sperma fonetico, sudore, umidore, liquido,
splendore scivolare lungo le mie superfici scoscese con lievi
smottamenti,
di te che abbassi il viso e guardi e incoraggi questo franare di scudi, scuse,
rapidità, stalattiti d'imbarazzo, gambe granitiche, circolazione sanguigna terrorizzata,
con naso perfetto e sguardo volpino - dio lo sguardo - regni su ogni incavo, mentre annusi gli odori di ogni altrove e diventano tuoi, scaldi il corpo e neutralizzi il desiderio, presente come l'ossigeno, nessun segreto il desiderio, ora tra noi tutte, si presenta con lo stesso sapore dell'aria, entra ed esce, respira e imbocca linfonodi, capelli, tessuti invernali, costine, detersivo, distese di buono, di zolfo, di pungente, di tabacco, di niente, di me, posso essere io ma non lo sono, è mia la mano? è mio il piacere? è nostro? da dove sei caduta slavina? stai continuando a cadere? quanti villaggi vuoi coprire, quanti corpi godere, quanti fiato per sciogliere le tue nevi. Io ancora provo a ripararmi dalla slavina, infilo il naso nello spazio tra il seno e l'ascella, come un gatto respiro l'antro oscuro delle ali, quello spazio di cesura che apre l'abbraccio, tenersi strette mentre passa la slavina.

e ora?



venerdì 13 febbraio 2015

viola

piccolo interrogatorio al colore viola come persecutore cromatico dei miei giorni.


tu eri viola, anzi violetta, quando sono nata, mi hanno messo in braccio a te, che aspettavi la mia nascita leggendo il topolino. hai creduto di odiarmi sentendo il mio arrivo, disegnavi grandi mostri sul muro, dicevi tu, no, non sarai mia sorella, non sarai altro me, solo mia la mamma, solo mio il papà, solo io a scatenare i capelli al vento mentre tutti ridono. Invece quando mi hai vista hai deciso che ero solo tua, né di mamma, né di papà. Da allora sono stata la tua bambola, prima mite sbrodolina, poi chucky, spesso bambola assassina. Tu viola, tu violatrice, violenta eri violenta ma violenta anche d'amore che qualche volta mi stringevi così forte da confondere i denti e le mascelle, io e te sorelle, che quando ci dimostriamo affetto sembriamo ringhiare come cani.

Tu eri il mio violino a undici anni, ti avevo scelto perché un pianoforte costava troppo e sembravi essere  modesto nella presenza. Invece nelle mie mani tiravi suoni strazianti, scorticavi le dita - la punta dell'indice e del medio che soffrendo ti dedicavo. Per entrare nei tuoi misteri avevo un maestro grosso con i capelli e il naso rosso e due mani che potevano frantumarti solo toccandoti. Eppure con lui i tuoi suoni erano saltelli di vespa, con me lamentazione d'asina. Ti ho mollato, allontanandomi in silenzio, sperando non ti accorgessi del mio abbandono. Non so come, sei arrivato nel fondo di un armadio e qualche volta la notte ci pare di sentire un pianto, un pianto di vecchio, forse sei tu, violaceo di silenzio.

tu eri viola quando avevo quindici anni e ti ho chiesto da accendere - sottinteso "mi intossichi ti prego?"-
Stesso liceo, tu bionda, io mora, tu luce, io ombra, tu ordine di parquet, io sporco di catrame, tu tuttiragazzi, io luposenzafidanzato. Alla sera pensavo a come farti ridere il giorno dopo, non ho mai capito di essere innamorata di te. piango per la tua voce cristallina, piango per le tue vene al led mentre nelle mie scorre la pece. Tu studi ad orari stabiliti mentre io vorrei vederti, forse solo perché non voglio studiare. tu stabilisci, tu dimagrisci, tu ambisci, ci perdiamo di vista. Ricordo ancora quando ti chiamai per dirti che andavo a vivere in un'altra città. Hai cominciato a singhiozzare lacrime d'uvaspina, inaspettata sorridevo per quell'improvviso e inaspettato scioglimento di viola.
Ma eri bionda, se proprio vogliamo precisare, al viola non ci sei mai davvero arrivata.

Violetti gli ultraraggi che mi uccidono al mare.
Viola l'ultimo chakra che è la frequenza dello spirito.
Viola le più sottili vibrazioni dello spettro solare.
Viola che porta sfiga agli attori.

Viola è affine al greco ION che aveva un'aspirazione al posto del digamma eolico e della V dei latini, che infatti hanno nello stesso ceppo VIERE, annodare, intrecciare da cui il senso di flessuoso.

Viola che oggi è un cespo di ricci che ondeggia e si avvolge ai miei passi, al mio sguardo, si avviluppa ad ogni domanda. T'ho visto l'altra sera che ballavi. 
Mi hai guardato,
mi hai chiesto: sei tu?
ti ho detto, sì e tu? sei tu?
Hai detto sì.
Poi ti ho seguito fino in bagno ma sei scappata via di nuovo, troppo bagno, troppo io, troppi ricci tutt'e due. La tua amica era anche dispiaciuta, pensava che come abbinamento, di colore e di cuore, andassimo proprio bene. Tu viola, io terrore.
Ho capito dopo che eri lesbonazi anche tu, una razza pericolosa per me che sono eterosemita.
Non ti ho pianto, non ti ho desiderato. Ti ho sezionato, ti ho reciso come un bel fiore da donare all'aria che lo seccherà.

Ti ho rivisto l'altro giorno su un vassoio di vasetti di viole del pensiero, all'esselunga, dove affogo i dispiaceri guardando scaffali di offerte, tutte mie, tutte speciali. Ho pensato a tutte le piante che ho sterminato. ti ho vista nel viso dolce di una viola a strisce gialle. mi hai guardato, costo poco hai detto, dai sì ti trapianto ho esultato, poi ho pianto perchè non ho tempo nè voglia di essere il tuo carnefice. Ti ho chiesto, piccola viola, frequenza misteriosa e quaresimale, viola, colore viola, sorella viola, strumento viola, amica viola, amante viola, cosa posso fare per te? perchè ti avvicini e poi ti neghi? perchè mi accosti e poi di nuovo sfumi? 
Dicono i saggi che un eccesso di viola può provocare malinconia e perdita del senso della realtà e di concretezza. 
In questi giorni prego a piccoli sospiri di essere daltonica, di perdere il settimo chakra e con lui la ghiandola pineale e tutta la violenza viola.
Prego di dimenticare in fretta quella fetta di viola che per una frazione di secondo ho intravisto nella parte più bassa di un arcobaleno visto dal treno. Ero al telefono con un'amica e ho urlato: è viola, l'arcobaleno, viola! Per un attimo ho pensato fossi tu. Poi ho capito che era l'umidore del finestrino in uno strano, perfido gioco di luci della pianura invernale. 

piccola, invisibile, nota di speranza: quando c'è un doppio arcobaleno il viola è l'ultimo colore che preannuncia e crea il rosso. E' il simbolo della rigenerazione, della vita che rinasce dopo la morte. Spero solo tu sia quindi una spietata violazione del mio sacrosanto diritto all'amore prima dell'arrivo di un'insensata felicità.

sabato 24 gennaio 2015

CHETAMINA

poi ci chiudiamo in bagno. sul water ci sono strisce di carta igienica che ricoprono il bordo del water zuppe d'acqua e pipì. è il momento che sognavo da piccola. quello in cui ci si chiude in uno stanzino con quelli fighi. quelli che hanno delle cose. delle cose segrete. delle cose proibite e segrete. c'è qualcosa avvolto in un piccolo foglio che, per una tenera ironia, è una pagina di topolino.
arrivi anche tu. e ci sono anche lei e un'altra. ma non siamo un noi. lo so che non faccio parte di noi.
tu stendi le righe su una tessera sanitaria, di quelle con il chip magnetico. di tutte le superfici proprio quella.
sei il sogno di uno scrittore ed è per questo che potrei stare a guardarti per ore. Poi tirate su la polverina con il naso, io no.
"credo sia la prima volta che vedo delle persone drogarsi", dico, con l'animo a carati d'oro misto a una sensazione di sfiga senza limiti.
l'altra esplode in una risata così forte che fa quasi volare via la polverina, come woody allen in un film.
e tu insisti. dai, 'sto sketch, questo piccolino, dai provalo. ma cos'è? hai lo spauracchio?

questa mania di dover condividere le droghe.
è una delle poche volte in cui il mio vizio di isolarmi, di comportarmi diversamente mi aiuta, mi salva dall'ennesima dipendenza. sì, perchè sono una di quelle odiose che ti dice, no guarda io non la provo neanche so già dove finisco.

ketamina: l'ho sempre trovato tenero come nome. Come una specie di vitamina. è solo una polverina, una cosa piccola che non si vede. la droga in questo senso è molto simile alle parole, alla poesia, per esempio. E' una cosa piccolissima, fine, che viene assorbita in silenzio e provoca tracolli e vertigini. Certo la ketamina non ha bisogno di relazione, sguardo, consapevolezza. ti porta nella sua realtà e ti fa fare un giro.
con la mia voce da patty di charlie brown dico manonèunsedativopercavalli? residuo di informazioni di chiacchiere da liceo.
e infatti tu mi rispondi sì.
l'altra mi dice, ma va, sono leggende.
vi guardo mentre non vi succede niente, mentre qualcosa dentro di voi comincia a portare informazioni in giro per l'organismo.
ho assistito alla liturgia ma il corpo di cristo non sono riuscito a mangiarlo. 

la ketamina è:
A parenterally administered anesthetic that produces catatonia, profound analgesia, increased sympathetic activity,and little relaxation of skeletal muscles; side effect s include sialorrhea and occasional pronounced dysphoria,especially in adults; chemically related to phencyclidine (PCP), it can produce hallucinations.



viene usato dai veterinari e per sedare anziani e bambini.

provoca salivazione in eccesso e disforia che è uno stato fastidioso di disagio. 
la radice di keto, provo a cercarla, mi ricordo vagamente di un verbo in greco che è legato allo stendersi o al tavolo. scopro che Keto era la dea marina delle balene, degli squali e dei mostri marini e che impersonava i pericoli del mare. 

infatti ora usciamo fuori dalla toilette con aria segreta e compiaciuta verso un mare scuro e tempestoso: un club dove se mi metto vicino alle casse mi sembra di essere nella pubblicità delle fasce rassodanti che vibrano sui fianchi. 
so che gli artisti che ho amato di più hanno fatto uso di droghe, hanno creato canzoni, testi, poesie, quadri, visioni, estasi fondamentali per la mia vita. 
eppure io non ce la faccio a prendere niente perchè ho bisogno di rimanere selvaggia, di provare tutto, di non anestetizzare niente. sarebbe una perdita di tempo, una lacuna nel mio modo di sentire il mondo che richiede una smisurata adesione al reale. 

allora ti guardo. e sei la creatura più bella e stupefacente che abbia mai visto. 
ti metti al lato del palco, proprio di fianco alle casse che ti fanno sentire come se fossi in fondo al mare durante un bombardamento aereo. 
è un po' strano starti vicino perchè non ci parliamo più da quella volta. 
o meglio, abbiamo azzerato e adesso mi sa che ti do' anche un po' fastidio perchè non sai dove mettermi, dove collocarmi, non siamo ancora amiche e forse aspettiamo entrambe che scenda la tensione di un'intimità abortita.
mi rifugio in un angolo buio e ti guardo, con il tuo bagliore biondo, camminare avanti e indietro in questo angolo di pista vuoto che hai trovato. muovi il capo come tirassi piccole testate all'aria ma trovando una specie di gomma a respingerti. muovi le gambe come se tirassi calci alla sabbia per terra. sembri un bimbo sperduto. avanti e indietro come un carcerato.

mi guardo intorno, siamo in un gigantesco cubo di cemento della periferia di milano. 
intorno chilometri di strade e nebbia e lampioni nel nulla.
qua dentro centinaia di persone che si muovono come zombie emotivi al suono della industrial più pesante che si possa immaginare. 
se ora tutte le sostanze stupefacenti che hanno assunto si illuminassero di luce fosforescente lo spettacolo sarebbe quello dell'oceano profondo dove abitano interi mondi di creature ultramarine. qua invece ci sono solo giovani milanesi convinti di andare all'eccesso, di aver superato il proprio limite settimanale, di aver esercitato una libertà psicotropa. 
un buttafuori rumeno sbraita contro un tipo che è salito su una colonna per fare una foto. 
poi tu mi dici, mi annoio, andiamo. io non so come farti divertire. dove sono le altre? stanno limonando? dici tu e in quel momento penso che sarebbe proprio bello io e te. ma niente.
anche lei e l'altra dicono andiamo. proviamo a fare le stupide, a sbranare via alla notte un brandello di euforia, forse qualche afflato erotico ma si è già spento nell'ammoniaca chetaminoide. 
forse voi che avete condiviso questa cosa passerete la notte insieme a cercare altri mostri marini. io sono rimasta nella mia piccola pozzanghera di considerazioni semplici da peppapig, tipo, sonno, freddo, bacini, nebbia.

tornata a casa mi siedo appoggiando la schiena al muro: d'improvviso, quando il tremito delle casse esaurisce la sua eco dentro di me, si ricompone una visione: stradoni lunghi che corrono invisibili nella nebbia, luci accecanti, kapò furiosi (rumeni, gli ultimi degli ultimi, obbligati a sgridarci), deportati, suono di macchine pesanti, bisogno di incarnare il nulla per poter celebrare la morte. tutto quello che ho visto stasera è qualcosa che mi ricorda il funzionamento di un campo di concentramento dove tu inquieta ti arrendi a un oblio ordinato,
dove qualcuno ti ha riconosciuto come razza da eliminare e ti propone una sostanza per "evadere" mentre sei già una deportata. 
sì, ok, sono un po' tragica, è solo un sabato sera e tu eri già pronta a dire che erano cinque, anzi , dieci anni che non prendevi la chetamina.
cosa vuoi che sia, un passaggio chimico nel tuo corpo? nulla, anzi guarda non è successo nulla, non è successo nulla questo venerdì, come non succederà nulla sabato e neanche venerdì prossimo, continuerà a non cambiare nulla.
(ma io in clandestinità continuerò ad avere visioni di smisurata realtà)

ketamina macht frei.
cocaina macht frei
techno macht frei.
lavora e guadagna macht frei.
milano macht frei. 













lunedì 5 gennaio 2015

PINODANIELE

Pinodaniele non lo sa e non lo saprà, ma mi mancherà tutta la vita. Ci sarà sempre uno spazio per un sentimento chiamato Pinodaniele. 

Per esempio per me pinodaniele è un tardo pomeriggio a Londra, a casa di mio padre, che non c'era, come al solito. Mi annoiavo ed ero cicciottella e troppo pavida per superare il complicato sistema antifurto che mio padre aveva attivato prima di uscire e avevo già guardato tutti i film del mondo. Quindi facevo la ginnastica. Con "Io per lei"e tutte le canzoni dell'unico disco che conoscevo, in mezzo alla musica forestiera. Mi ricordo che quel giorno riuscii a fare la spaccata per la prima e unica volta nella mia vita. L'unico testimone era Pinodaniele. Che con quella vocina dolce sembrava dirmi "brava!".
PinoDaniele - diario partenopeo

Pinodaniele è quella sensazione di essere importanti nel mondo anche se sei cicciottello e con la voce buffa. Anche se sei tamarro. Anche se hai dei capelli lunghi vaporosi, grigi e ti vesti come un camionista dell'Arizona. 

Pinodaniele è anche un sentimento complicato di familiarità e vergogna, infatti non ho mai sbandierato il mio amore per pinodaniele. Specialmente tra amici e familiari a cui spesso sentivo dire "Pinodaniele, sì, ma solo il PRIMO Pinodaniele, quando si faceva d'eroina, poi è diventato commerciale". Per me invece Pinodaniele è tutto Pinodaniele. Anche quello di "Sara", anche quello di "Dubbi non ho",  anche quello di "col sorriso di plastica mentre fai la ginnastica", perfino quello che canta con Irenegrandi. Mi dicevo, se lo ha fatto Pino vuol dire che c'è un buon motivo.

Pinodaniele è quella leggera sensazione di sollievo, di sapere che aveva superato demoni tossici e adesso era qui, magari più pop, magari più synth, magari con ritornelli imbecilli e accenti melensi, ma presente. Mi ricordava la storia di mio padre che per anni aveva danzato con la morte come lui ed era ancora qui, insopportabile ma qui, sulla terra. 

Pinodaniele è un sentimento di perdono: ero sul cammino di Santiago, una ragazza di vicino Napoli mi aveva lasciato in malomodo, senza cuore. Io camminavo tanto per non pensare. Avevo anche lasciato l'iphone dietro per disintossicarmi lo sguardo da quei pallini rossi che segnalavano un suo possibile messaggio. Ma poi per lasciare dietro i rigori fanatici, ho chiesto in prestito il lettore a mio fratello. Avevo un leggero timore, di tornare alla mail, di vedere se mi aveva scritto, se aveva cambiato idea, di cadere nella rete. Per distrarmi ho guardato che musica aveva: l'intera discografia di Pinodaniele. Non avevo mai saputo della passione di mio fratello per Pinodaniele. Siamo cresciuti distanti, eppure Pinodaniele aveva parlato a entrambi con il cuore, a noi piccoli torinesi dai modi freddini. Salivo sui lievi pendii delle Asturie e guardavo l'oceano ascoltando "Cammina, Cammina", un pezzo in cui un vecchieriello cammina sul porto ogni giorno e pensa a sua moglie che è morta. 

Pinodaniele è un sentimento di innocenza, di buono, di semplice, di essere irresistibilmente dolce, di essere disarmato - me sent' nu creaturo ca nun po' fa pipì. Era l'amicizia con una mia compagna di liceo, napoletana anche lei, con cui ascoltavo Napul'è, pure se a Napoli non c'ero mai stata. Era essere un po' ingenui. Era cantare napoletano, inglese e italiano e tutto si teneva insieme con la musica. 

Pinodaniele è imparare gli accordi di "E cerca e me capì" e "Putesse essere allero" sul tetto di una piccola casetta del Pigneto, durante un'estate difficile, quando mia sorella si è ammalata e provavo a imparare una canzone da cantarle in ospedale. Mai riuscita. Ma lei è guarita e secondo me è stato anche Pino a proteggerla.

Pinodaniele è una sensazione inadeguata, intima e ridicola, come sentire della sua morte da un dj di una radio stupida in un bar qualunque di Milano, è sapere che mentre andava all'ospedale per provare a salvarsi dall'infarto ha bucato una gomma sull'Aurelia e quante volte capita oggi giorno di bucare, dai, e  porcaputtana non lo vedrò mai in concerto e pagare in lacrime il caffè con il barista perplesso - che fai, piangi per uno famoso? - e comprare una kenthia alta due metri per provare a mettere qualcosa di vivo in questa giornata. E' quella cosa tragica e comica che mi fa sentire così vicina a lui oggi.
















giovedì 1 gennaio 2015

LIMONARE

Tu hai gli occhi felici di un cane da appartamento signorile. Non ti ha toccato nessun problema nella vita, tranne forse una lieve isteria, che hai pensato di curare andando a vivere a Parigi, dove, come dici tu, sono tutti un po' folli e "io mi sento a casa". Hai braccia lunghe e magre, porti un vestito rosso e bianco estivo, per i nostri due gradi milanesi, ma sembra esserti caduto addosso per sbaglio o che tu l'abbia raccolto in qualche dormitorio, come Suzanne di Cohen, ma tu non reggi lo specchio.
Balli come raffaellacarrà durante un attacco epilettico.
Hai una voce infantile e un finto accento francese, sul tuo italiano che dovrebbe essere italiano visto che, SEI italiana.
Mi racconti la storia di una sceneggiatura che hai scritto, molto debole e poco interessante.
Fai atti eclatanti di infantilismo come sparire o cambiare musica o mangiare pezzi di ananas con lo sguardo fisso nel vuoto, guardando gli altri come se fossero gli adulti e tu la piccola.
E allora perchè da mezz'ora non riesco a staccare le mie labbra dalle tue in mezzo alla pista da ballo di un vecchio locale pop-retrò di milano, schiacciate da una ressa di gente che stasera, perdio di tutte le sere, si deve divertire?

Non c'è sensazione soave come quella di baciare un'altra persona. E' quel moscacieca nel soffice del viso, è carezzarsi ridacchiando come due bambine autistiche - tu più di me -, sapere anche a occhi chiusi che la bocca è lì, è una vertigine quando si supera per la prima volta lo spazio di sicurezza dell'altro con il viso, quel pericolosissimo viaggio del viso verso il viso dell'altro. Mi trovo a dondolare lentamente, probabilmente una mano si appoggia al fianco ma solo per trovare qualcosa da fare o forse per trovare la giusta leva. Dopo un po' che dondoliamo mi accorgo che quella sensazione di precarietà, di non sapere dove mettere il corpo è svanita, abbiamo trovato un punto di contatto che ci fa restare in equilibrio, come certi esercizi zen che ti chiedono di mettere in equilibrio una pietra perpendicolare su un'altra. Esiste un punto di equilibrio che è solo uno. 

Io poi spesso inclino la testa perchè sono mediamente più alta e di solito la inclino a sinistra. Tu hai una bocca che a parlarti sembra grande e carnosa, ma a baciarti è piccola e ruvida, come quella di un gatto, senza i denti affilati. Mi piace che mentre ti bacio sento un preciso flusso di elettricità scorrere nelle nostre bocche, come se stessimo parlando. Si crea uno spazio di tepore solo nostro e siamo in mezzo a centinaia di persone ma quello spazio è protetto come se avessimo trovato un ombelico, un riparo, un varco. C'è la rivelazione dell'umido, la lingua, che fornisce informazioni ancora più sottili e intime alla mia. Lo chiamano bacio alla francese. Mortaccitua. Proprio dalla Francia dovevi tornare stavolta?

Qua, in Lombardia, dove si mangia sushi con contorno di cassoeula, dove tutto è nebbia, buon senso e modi bruschi, qua dove per la prima volta mi è capitato di arrossire ascoltando certe espressioni o certe parole, qua, baciare si dice limonare. 
L'ho sempre trovato imbarazzante come termine, forse per via di quella L che alludeva al liquido e a troppa intimità esposta, poco romantico il termine limonare, specialmente in bocca a certi amici miei che amano espressioni come "limonare duro". 
Ma stasera ho scoperto l'etimologia, che è molto più lieve e romantica di come me l'aspettassi. Limonare deriva proprio da limone, di solito venduto in coppia dagli ambulanti che esclamavano "cinq ghei due, i limonitt'", cinque centesimi due limoni. I milanesi hanno poi preso in prestito l'esclamazione per canzonare le coppie d'amanti.
I limoni venivano venduti solo al paio proprio perchè due su uno stesso picciolo.
Come mi sento io mentre ti bacio e non riesco a staccarmi.