venerdì 30 novembre 2018

consenso

Una sera a cena con amici conosciuti da poco mi trovo a raccontare questa storia, per puro spirito di provocazione:

ero appena rientrata in Italia e avevo bisogno di essere toccata, una cosa di cui ho spesso bisogno, il contatto umano. Molti dei miei amici erano partiti e di altri avevo perso i contatti, letteralmente. Mia madre non è un tipo da coccole, non ho un gatto, una conversazione skype non ha la pelle e quindi decisi di comprare un massaggio.
Avevo pochi soldi ma tanto desiderio quindi l'offerta di un centro massaggio orientale per un massaggio a 15 euro rispetto ai consueti 60 mi sembravano l'unica via percorribile al fottuto self-care.
Entravo per rilassarmi, ma qualcosa nei vetri oscurati, nella grafica, nel ritratto della signorina orientale in vetrina che mi sorrideva in mezzo alle palme mi comunicava una segretezza sospetta, qualcosa di sconosciuto e proibito e poi forse una parte di me era perfettamente a conoscenza del fenomeno dell'happy ending. Ma al tempo stesso io volevo solo un massaggio. 
Entro, dico 'voglio quel massaggio, quello da 15 euro', la donna cinese che gestisce il posto con una perfetta messa in piega senza dire nulla mi consegna una bustina quadrata di plastica contenente il tanga, come quello si indossa nei centri estetici quando vai a fare la ceretta. 




Senza tante cerimonie mi infilo nella stretta cabina dove c'è il lettino, gli ambienti diventano sempre più piccoli, mi assediano sempre più stretti. Mi spoglio, mi infilo le mutandine ed entra un piccolo uomo cinese dal sorriso dolce.
Per un assurdo pregiudizio iniziato chissà dove e chissà come sono incapace di mettere in relazione i cinesi e il sesso. È una specie di pathway neuronale inattivo. Non mi pongo quindi neanche il problema, anche se sento emergere una leggera sensazione di disagio, che confondo con curiosità che poi decido di impastare con tanta compiacenza perché comunque, è bene ricordarlo, volevo un massaggio, solo un massaggio, non volevo sollevare problematiche di genere, confini e consenso, soprattutto con una donna d'affari cinese che gestisce un centro massaggi in centro a Milano. Mi sembrava troppo per una persona che vuole solo un massaggio. E poi il piccolo uomo cinese era molto diverso dai muscolosi massaggiatori che di solito intervengono nella mia fantasia preferita, quella appunto del centro massaggi. 

Mi stendo sulla pancia, slaccio il reggiseno e infilo il viso nel buco del lettino da massaggio che segnala al mio corpo una resa completa. Il piccolo uomo cinese si versa sulle mani l'olio da massaggio - chiaramente johnson e johnson cinese a giudicare dall'odore- e comincia a massaggiarmi con la stessa buona volontà che i lillipuziani possono aver avuto nell'ancorare Gulliver alla sabbia con le funi. Mano a mano che procede con il massaggio sento le sue mani crescere, il mio corpo perde di contorno e definizione e ogni punto della mia pelle si equivale. È solo infatti quando ho un orgasmo che mi rendo conto che le piccole mani del cinese avevano stimolato la mia clitoride - non la spalla o la coscia, con una precisione che denunciava molta esperienza o un intuito fenomenale sul corpo femminile. Diciamo che avevamo saltato molti passaggi nella relazione ma che in quel momento mi aveva reso felice e soddisfatta. 

Il piccolo uomo cinese non parla italiano (forse è questo il successo della nostra istantanea relazione?) e ripete solo "tu molto bellissima". Io arrossisco, mi rivesto, pago i miei quindici euro guardando la donna d'affari cinese per capire se era davvero compreso questo momento d'intimità e poi esco.
Esco con un generico senso di leggerezza, ilarità e stupore. Ma nessun senso di violazione, nessun senso di molestia.

Durante la stessa cena con amici conosciuti da poco un'altra ragazza racconta invece di essere entrata in un centro massaggi e, senza descrivere nello specifico, di aver avuto la crescente sensazione che le incursioni fulminee della mano del massaggiatore - un muscoloso massaggiatore ayurvedico - avessero poco a che vedere con benefici terapeutici della stimolazione dell'osso sacro. Lei si era sentita molestata, violata, assediata, insidiata e tante altre cose che danno un'inspiegabile sensazione di sporcizia interna. Così anche la sua amica che aveva ricevuto un trattamento dallo stesso massaggiatore. Come nello schema classico della molestia nessuna delle due ha fatto nulla per quella specie di paralisi che interviene nella preda e che impedisce non solo di denunciare ma proprio di pronunciare qualsiasi parola. 
Alle volte mi chiedo se sia un fenomeno biologico inventato da madre natura per farci comunque stare zitte e riprodurre la specie. Non lo so.
Mi chiedo se anche la mia generica sensazione di ilare stupore fosse un meccanismo di difesa e protezione del mio molestatore, il piccolo dolce uomo cinese, che non ho mai più rivisto e che ad oggi rimane uno dei pochi uomini in grado di farmi sciogliere di piacere.
Alla cena sono presenti anche dei maschi etero cis che con lei adottano un'espressione simile al cordoglio mentre con me si lanciano in grasse risate e commenti a suggerire che il mio atteggiamento così disinibito e allegro sia frutto del mio essere, tutto sommato, una troia. Lo si dice con totale amicizia, ma il fatto rimane. Se non mi sono sentita violata è solo - forse perché sono un po' zoccola. 

Comincio a pensare che il problema non sono questi maschietti cis divertiti, ma la mia stessa percezione di consenso. L'aver costruito tutta la mia femminilità sul concetto di protezione e difesa. Sull'aver pensato che il consenso sia materia giuridica e non emotiva, biologica, tissutale, corporea, circostanziale e arbitraria. Costretta a pensare che per esercitare in modo saggio il consenso io debba avere una "solida fibra morale" o un certo rispetto per me stessa. Come se scopare in giro, fare l'amore sia solo un atto di abbandono di sé e del proprio corpo. 
Come se il consenso fosse un bottone che premo solo io.

Consenso, come tutte le parole che iniziano con co-, allude a un insieme, a un + di persone, a una collettività. Il consenso è quindi qualcosa che si costruisce insieme, è cum e sentire, sentire insieme, non ha solo a che vedere con me che dico sì o no, tu entri o non entri. 
Ho la sensazione, dovuta forse solo al mio rifiuto del progresso, che nella precipitazione del senso di ogni relazione a una relazione di scambio - io offro questo, tu cosa mi dai - ci siamo persi il vero punto della relazione che è il processo di formazione della relazione. Cioè io da te voglio qualcosa che tu mi dai o non mi dai. Senza dimenticare che proprio il consenso - anzi la formula "mi consenta" usata da un personaggio particolare - è diventato l'emblema dello scambio di favori sesso-potere. 
Il mio obiettivo non è la relazione ma un punto di esaurimento di ogni desiderio. Me la dai o non me la dai. Così anche io, che invece di costruire relazioni in cui le coccole sono il prodotto di uno slancio spontaneo d'amore, prendo i miei soldi e salto i passaggi, compro un massaggio, voglio il risultato finale. 
Anche il mercato, immagino, all'inizio forse era la scusa per gli umani per stare insieme, mentre ora è solo un tramite per arrivare al possesso di un oggetto, tu umano sei l'ostacolo al soddisfacimento del mio desiderio. Perfino quando cerco coccole tu umano, tu webcam girl, tu puttana, tu persona con la tua vita, le tue resistenze, i tuoi problemi e le tue gioie, sei l'ostacolo a quello che voglio io, quel posto vuoto dove io scopo, eiaculo, provo piacere, mi scarico, mi libero. Spostati, per favore, ti devo consumare. 

Consenso:  supino (eh, sì) di consentire, CUM = insieme, e SENTIRE, nel significato metaforico di pensare, sentire. Essere dello stesso sentimento, parere. Aderire, concordare. 




domenica 28 ottobre 2018

fine

Quando comincia la fine?
Comincia con la radice FIND o FID che ha il senso di dividere o fendere, onde varrebbe, il punto della fenditura, della divisione, l'orlo, l'estremità.

Prosegue impietoso l'etimologico, che sembra dirmi ma non vedi che è il:
...Punto che segna il termine nello spazio e nel tempo; Punto di là da quale si cessa. E più largamente parte estrema, ultima. Sarah capito? The end, basta, kaputt, c'est termineé.





Dove comincia la fine? Dove inizia la nostra fine?

Inizia quando dal finestrino ti vedo abbassare lo sguardo sul cellulare e voltarti per andare via senza che il mio treno si sia messo in moto? Lì qualche cellula del mio corpo si sente finire in mezzo al petto, o meglio, si spegne.

Finisce quando ti vengo a trovare a sorpresa nel tuo piccolo paese e tu sorridi e facciamo l'amore fortissimo come se fossi felice di vedermi ma sotto sotto in realtà hai paura di qualcosa che non sai?

Finisce quando invece che mandarmi bacini nei messaggi whatsapp mi mandi beijos portoghesi o besitos spagnoli, nella speranza che deterritorializzando il linguaggio anche la nostra storia perda asilo?

Finisce quando il tempo di silenzio tra un messaggio e un altro, tra una chiamata e l'altra, impercettibilmente si allarga come inavvertita procede la deriva dei continenti (quale placca si stacca per prima? E perché?), tu non dici niente, ma quando motivi il tuo silenzio - di questo, di quello, di non ricordo più - la cosa diventa patetica perché mi sento la maestra a cui porti una giustificazione falsificata e mai davvero richiesta. (Non vuoi scrivermi? Non scrivermi, non hai obblighi, sì certo, io guardo la schermata di whatsapp tutto il giorno ma questa è una mia libera scelta, una pratica dell'ossessione che prescinde dalla tua persona e dalle tue vicissitudini quotidiane, fermo restando che nella mia fantasia stai ovviamente scopando con tutte le femmine della pianura padana).

La fine è quell'ultima scopata? Quella bellissima, di mattina, ancora sconosciuti, ancora nel sogno, i corpi che fanno da soli? Quella che anche se mi hai  detto che insomma questo non può essere l'inizio di una relazione e quindi è necessariamente la fine di qualcosa, la fine rimandata a data da fissare -   non sappiamo che è l'ultima perché pensiamo entrambi che di scopate così con me ne puoi fare quante ne vuoi perché io non riesco mai a dirti di no.

Poi la volta successiva, ti dico di no. Prendo il pallone e lo porto via, fine partita. Inizia la mia fine a sorpresa. Che in questo finirsi, sfinirsi a vicenda sembra di cercare il confine tra un'onda e l'altra e non si sa mai. Piango, ti faccio polvere, provo a gridarti via, quando non ci sei. Sai che una volta piango così tanto che sbavo come una bambina? Mi deformo di pianto.

Quando finisce la fine?

Finisce quando ho ripercorso, pianto e archiviato i ricordi?
Quando la smetto di salire su quella passeggiata a Porto Venere, dove a ogni sosta rubiamo i fichi  - tu dai rami più alti allungando un braccio, io arrampicandomi e tagliandomi - vediamo in un rudere dove entrambi pensiamo che potremmo fare l'amore ma poi possiamo gonfiarci ancora di desiderio, abbiamo tutto il tempo per tornare al rifugio, sequestrarci a vicenda a letto e tu mi fai tremare tutto il corpo. Abbiamo tempo. Anche nel ricordo la sensazione è che ho tempo.

Finisce quando li ho cauterizzati i ricordi? Quando li ho resi leggendari? O quando comincio a vedere le storture, le sbavature di copione, le perdite gialle del ricordo, il tuo sedere che un giorno mi ha ricordato quello di un uomo anziano. Il tuo accento che alcuni giorni mi dava fastidio, mi sembrava quello di un uomo ignorante. Il tuo essere fondamentalmente distratto al nostro miracolo.

Finisce quando smetto di ricordarmi che a quest'ora sei al lavoro e tra un paio d'ore stacchi e mi chiami?

Finisce quando ogni tuo inaspettato messaggio - scorretta invasione di campo - smette di farmi vibrare per giorni come una cazzo di campana tibetana?

Finisce quando so dove tumularci? Sulla parete di marmo in un piccolo incavo con foto bombate e leggermente circondate di un alone avorio, con le date? O ci faccio cremazione, per occupare meno spazio possibile con i nostri perfetti corpi di amanti?

Ma davvero non finisce mai niente, nel frattempo succedono cose che danno proporzione alla fine, come l'apocalisse insegna la fine al tramonto.

Volevo davvero scrivere qualcosa sulla fine di un piccolo imbranato amore, ma poi l'unica fine a cui ho pensato oggi è la fine di una ragazza su un materasso, nuda e imbrattata di sperma dalla vita in giù, sbattuta da diversi uomini che godono - probabilmente annoiati - del suo corpo immobilizzato mentre il suo cervello le manda segnali di rilassamento e sonnolenza, le manda segnali di piacere provocati chimicamente mentre non immagina neanche che quella è la sua fine, che quel giorno non ci aveva davvero pensato che sarebbe stata la fine, non esiste neanche la fine quando hai sedici anni, sembra quasi un'impresa da eroi, la fine. Mentre la fine ti prende per sbaglio, non c'è nessun disegno, nessuna intenzione, non posso credere che ci fosse uno schema divino per una fine così, una vittima che non sa che sta per diventarlo in via definitiva e dei carnefici che non si aspettano di essere carnefici o almeno non nel modo che li attende, semplicemente disinteressati alla cosa.

Insomma questa per me è la fine senza fine, non c'è fine al tuo andartene Desirée.





lunedì 4 giugno 2018

lesbica

Non esiste sul dizionario etimologico. Ma la sua origine è geografica e non stratificata nel tempo per usi o diluizioni di vocali e flessioni di consonanti. Si ritrova sull'isola di Lesbo, nei tìasi, dove le giovani fanciulle ricevevano un'istruzione e probabilmente venivano iniziate ai piacersi sessuali dalle stesse insegnanti, da cui il termine. Ora quell'isola è terra di approdo di disperati dalle terre dell'inferno. E anche per me è stata terra di approdo temporaneo. Non so cosa sia stato il mio lesbismo ma so cosa sono per me le lesbiche. Per me le lesbiche sono creature straordinarie, ondine o sirene mai viste prima con iridi fosforescenti e arti sovrannaturali. Mi ricordo la prima donna di cui mi sono innamorata. Una specie di fenditura luminosa nel tempo, capace di fare cose incredibili: l'ho vista volare come un rapace e saltare come un tirannosauro, sfidare il sole e diventare maschio o femmina in base al riflesso della luna. Non mi venite a dire che le lesbiche sono come gli altri, non è vero: le lesbiche sono creature ultraterrene: sono più intelligenti, leggono il pensiero, sanno riparare i lavandini, si aiutano e sostengono a vicenda sempre, si vestono come cazzo vogliono e sono maestre di intenso piacere perché imparano a conoscere il deliberato piacere di ogni cosa. 
Sull'isola delle lesbiche - e a Milano quest'isola è grande e ben protetta, enorme ma quasi invisibile a chi non la conosce - ho potuto fare tutte le cose che tra gli etero non potevo fare: ho riconosciuto la mia intelligenza e l'ho pettinata e ornata con piume di pavone immortale. Ho ballato come volevo, come se non dovessi sedurre nessuno ma per riscoprire il violento piacere del mio corpo. Ho baciato e toccato e agito con audacia - come un uomo - con corpi morbidi come il mio, ho baciato altre labbra soffici e delicate come le mie. Ho guardato una donna con desiderio, anche ridendo dentro perché mi sembrava comunque una cosa ridicola, come se non ci fosse bisogno poi di tutta questa eccitazione sessuale per comunicare a una donna - a tutte le donne - il mio profondo amore per colei con cui condivido un organo genitale - o un modo di sentire il mondo. 
Forse è per questo che, sebbene mi sia ritornata una gran voglia di cazzo che soddisfo senza indugio e che quindi mi fa salpare dal porto di lesbolandia (senza che tra l'altro molte si siano accorte della mia permanenza), mi sento e forse mi sentirò lesbica ancora a lungo, lesbica come qualcuno che abita un'isola dove ci siamo solo noi che non siamo il completamento di nessuno, lesbica come donna che esplora senza vergogna ogni singolo centimetro di autodeterminazione, in un proprio ecosistema completo e rigoglioso. A me forse non basta una stanza tutta per me, io voglio un'intera isola tutta mia. 

venerdì 27 aprile 2018

Fiore

Mentre sollevi il vaso di ortensie mi accorgo che hai le mani davvero molto piccole. Incredibilmente piccole. È come se non riuscissi a mettere le proporzioni del tuo corpo in relazione alla grandezza del posto che mi occupi nel cuore. (Questo post sarà pieno di parole pericolose e imbarazzanti come fiore, cuore, dolore e amore)  
Decidi di comprare il vaso di ortensie perché, come me, ti ricordano l'infanzia. Nonostante le tue mani incredibilmente piccole sei arrivata come un inatteso pacco amazon mai ordinato. Delle varie ordinazioni finora avevo ricevuto un padre modello standard a cui mancavano sicuro delle viti, una madre 3 per 1 che mi ha fatto da madre, da padre e da figlia, qualche campioncino buonissimo ma troppo caro di sorella qui e là.
Ti mancano dieci euro e li tiro fuori subito e mi fido perché so che ci rivedremo, so che non ti ricorderai di ridarmeli e sarai felice quando ti ricorderò di restituirmi i dieci euro e io non proverò imbarazzo nel chiederteli. Sei un'amica che se la raccontassero nei romanzi sembrerebbe inverosimile. 
Come amica sei l'equivalente del trattamento deluxe, quello con tutto, massaggio, spennellate di polvere d'oro e cacao e olio di argan tiepido, che non scelgo mai tra le offerte groupon, sei praticamente Yale, Harvard e Stanford messe insieme, sei il primo ballo alla Casa Bianca tra Michelle e Obama, sei la meravigliosa sensazione di quando si accende il verde proprio mentre inizi ad attraversare (compreso il sottile brivido di trasgressione che prende iniziando a camminare quando è ancora rosso), sei un doppio arcobaleno che si tuffa nelle nuvole, sei quel gridolino di gioia di una canzone dei Jackson Five quando ballano all'unisono, sei il primo vero caldo di primavera, sei una vertiginosa discesa in bicicletta dalla collina intorno ai sette anni. La prima in cui non si cade. 
Io e il tuo ragazzo ti facciamo notare che forse sei perfino più piccola del tuo grande vaso d'ortensie fucsia e tu ti stai già preoccupando del fatto che la farai morire, perché ti sei convinta di avere il talento di far morire le piante. 
Però la nostra amicizia l'hai fatta germinare e sbocciare, nonostante io mi sia comportata come un'afide pazza spesse volte. Sei l'unica persona che non mi imbarazzo a definire la mia migliore amica a trentatré anni, l'età in cui non si dovrebbero più avere le migliori amiche, eppure non saprei come altro definirti. 
Lo spudorato tacito accordo è che tifiamo l'una per l'altra anche quando è evidente che l'una o l'altra è in pieno torto, ma non ci interessa, la nostra amicizia è tutta sbilanciata dalla nostra parte. Ci siamo anche dette più volte che dobbiamo essere come "i maschi" che si sostengono a vicenda qualsiasi cosa succeda. 
Abbiamo perfino litigato una volta. È stata una cosa strana. Non ero neanche davvero arrabbiata dentro, ma pensavo che fosse necessario a quel punto litigare perché altrimenti la nostra amicizia rischiava di non essere autentica. Ci siamo allontanate per un po' di tempo ma mi sembrava come nei film quando lo sai che due si allontanano e poi ritornano insieme. Non era neanche che avessi lasciato un vuoto in quei giorni in cui abbiamo smesso di sentirci. Non potevi lasciare un vuoto. È come la radiazione cosmica di fondo, quel crepitio che si sente tra le frequenze radio, l'ultimo residuo del suono del big bang, ci sei da sempre e ci sarai fino all'espansione massima del cosmo. Quindi ho dovuto solo ritrovare quella frequenza segreta che per pura fortuna abbiamo beccato un giorno e ricominciare a sentirti e vederti. 
Sei l'amica che riesce a darmi retta nelle stronzate più radicali come quando ti propongo il festival del petting o un documentario sulle infradito giapponesi e non hai bisogno di vedermi felice o soddisfatta o appagata in una relazione per sapere che sono già felice. 
Fiore proviene dalla radice indoeuropea FHLA, con il senso di gonfiare, di traboccare, sbocciare. Mentre ti guardo con il tuo gigante vaso d'ortensia che stai praticamente portando al patibolo,penso che hai soffiato nuovo senso nella mia vita e che un'amicizia come la nostra è un motivo sufficiente per domandarsi, nel cuore della notte, se la vita abbia senso. 



giovedì 8 marzo 2018

Scopare

Se su google cerchi scopare trovi questo:


scopare
sco·pà·re/
transitivo
  1. 1
    Pulire con la scopa, spazzare: s. il pavimento, una stanza; anche assol..

    "ho finito di s."
  2. 2
    non com.

    Consumare completamente ogni cosa.
    "hanno scopato tutto quello che era in tavola"
intransitivo 
    1volg. 
           Avere un rapporto sessuale con qualcuno

Scopare con te ha coperto tutti i campi semantici: pulire, consumare, scopare. 
Mi hai scopato dal corpo un po' di solitudine, con contatto di mucose ben aderenti e colpi energici. Abbiamo due corpi tondi di polpa forte e morbida. Mi hai ripulito di tutte le briciole di desiderio che accumulavo nei giorni. Hai spinto con forza, negli angoli, ripassando più volte, accumulando tutto in punto, svuotando poi i residui di godimento sulla mia pancia, abbiamo riso come bambini che fanno finta di pulire casa e poi la sporcano di nuovo. Io sotto di te, appena schiacciata, mi facevo perlustrare, silenziosa come terra invernale e grandi pozze di acqua dove scivolavi dentro ogni resistenza. 
Abbiamo consumato tutto. Baci, baci maldestri, baci soffocanti, preservativi, magliette, peli in bocca, peli per terra, polvere di pelle, seme caldo, crampi, chiedersi se i vicini sentono il casino, tisana e noci rotte a mezzanotte, rime tenute in testa e dubbi taciuti, occhi chiusi, candele e ridere, parole accennate, domande ansimanti, e il tuo dialetto che mi scioglie qualcosa in mezzo alle gambe. Abbiamo consumato il tempo del corteggiamento: anzi sono stata io a spingerti nel letto per paura che in realtà non avessi voglia di corteggiarmi. Faccio all'amore quello che la medicina fa con la malattia, taglio i sintomi non indago sulle radici dell'infiammazione, rimuovo il dolore, respingo la domanda che ogni malattia porta con sé. Mi prendo il tuo corpo come una compressa, con poca acqua prima di coricarmi. Sperando sempre che funzioni, ma non funziona mai.
Abbiamo avuto un rapporto sessuale. Anzi, tanti. Tanti quanti gli anni della nostra amicizia. Durante la quale raramente ci siamo posti il problema se fosse il caso di sfregarci i corpi oppure no. Ma insomma, scopare è scopare e si può fare in amicizia, non mi ricordo chi l'ha detto, diverse amiche hanno confermato questo leggendario unicorno della scopata senza rimorsi e senza impegni. Che amarezza scoprire che della scopata mi interessava la sua unica assenza: l'intimità. Il mio personale unicorno. 
Rimane in fondo a tutte queste definizioni questo misterioso qualcuno, questo qualcuno con cui si scopa che è sempre e solo un qualcuno (che non saprò mai dove mettere nei ricordi, in quale cassetto dell'amore che per me fa girare le stelle devo mettere chi ho scopato). Questo qualcuno che non conoscerò perché tu al mio accenno di bisogno sei scomparso, come un'auto al tornante che giustamente non ha bisogno di fermarsi prima del tornante, non ci si ferma in quelle strade dove non c'è nulla, nelle strade con i tornanti si procede di curva in curva.
Poi certo, arriva l'amica che ti ricorda tutta la preziosità dell'esperienza, del prendere da ogni rapporto quello che ti può insegnare, del godere del momento, del godere tutto solitario che deriva da una scopata, dove si gioca a chi prende di più e con più furbizia e scappa via prima e fa tana per tutti. (E certo, non sono venuta, non so prendere, la mia educazione cattolica mi ha insegnato che prendere è meno bello che dare, bastardi ridatemi la mia suprema egoista avida infanzia). Forse un po' di gioia nel dare, nel farti un pompino che in ogni caso ti ha lasciato un graffio sul cazzo (non so fare i pompini e spesso i denti ci vanno di mezzo).
Tu mi dici chiaro cosa succede tra di noi (niente), ma io ormai su di te ho fatto partire una lenta proiezione di altro, una specie di ologramma tutto mio a cui dedico fotografie, lacrime e canzoni registrate al buio prima di andare a dormire. (Dio come non ti meriti la mia voce meravigliosa).
Ieri ti incontro, sei fuori con un'amica, siamo tutti a sentire una poetessa, la mia preferita, anzi la preferita di tutti. Il mio cuore trivella e perfora, sento male in mezzo al petto perché forse tu con quest'amica con cui sei uscito stai facendo quello che io e te non abbiamo fatto, uscire per stare solo insieme, conoscersi, accordare il ritmo del camminare, sintonizzare lo sguardo, aprire e chiudere il viso l'uno all'altro, guardarsi con il primo bene di chi inizia a conoscersi e mette a fuoco ogni lettera, ogni lineamento.
La mia psicologa mi domanda infatti "ma oltre a scopare avete mai fatto una cena, un cinema, qualcosa?" (Sì, la mia psicologa dice scopare, è per questo che vado da lei). Poi come sempre inizia il suo gioco di iniziare la frase per vedere se riesco a completarla: 
"se uno scopa subito si perde la.......?" 
"e compromette qualsiasi possibilità di costruire una....?"
"e l'incertezza fa parte della ....."?
Chiudo con piccola promessa a tutte le amiche che ho chiamato ripetendo ogni volta "ah, ora sì, ora ho capito, ora so cosa significhi rispettare me stessa, ora ne ho abbastanza di questo vuoto devastante, di questa bomba h di nulla che mi stende il giorno dopo di una scopata senza futuro, ora so volermi bene, ora so che devo prima provare fiducia e avere un reale scambio eccetera eccetera eccetera". Prometto che la smetto di farvi queste promesse. 
Resta nel cuore la parola scopata di cui sono figlia: narra la leggenda microfamiliare che un gelido inverno, mia madre, per salvare ancora del materiale genetico di mio padre (l'unica cosa buona che tuo padre mi abbia lasciato), sia entrata nel letto di mio padre, anni dopo la fine del matrimonio. Una sola, probabilmente poco romantica scopata che nove mesi dopo mi ha permesso di uscire, nello stupore di chiunque, dalle gambe di una mamma di mezz'età, un po' stanca della vita ma molto ingenua, che ha sempre creduto nella bontà degli estranei e dei rapporti non recuperabili.