lunedì 17 aprile 2017

demordere

di te mi sono rimasti i cani e dylan dog. che comunque è cane di cognome. di te quindi mi sono rimasti i cani. tu adori i cani. quando vedi un cane lo saluti come se stessi salutando un amico che non vedi da tempo e poi ci resti vicino e salti e sei felice. sei felice quando vedi un cane. lo abbracci e lo fai sentire speciale. dedichi del tempo al cane. ora lo faccio anche io. ogni volta che vedo un cane mi fermo e lo celebro, lo tocco, sperando nella carezza di sentire te, lo abbraccio per abbracciare te. 
questo succede di giorno, quando  mi porto a spasso per fare i bisogni. 

la sera entro nel negozio di fumetti dei navigli, scendo al piano inferiore e uno a uno controllo tutti i dylan dog che sono in vendita. se trovo quello disegnato dal tuo disegnatore preferito - roi - lo compro. lo leggo e poi lo lascio vicino al letto, insieme agli altri, il mio cumulo di ossa rosicchiate, ogni vignetta spolpata, guardata, assaporata come mi hai insegnato a fare te.

sono nata da un gatto e un cane: dal mio cane ho preso una meravigliosa attitudine alla devozione, la capacità di rovistare, di fare festa per nulla, di scodinzolare senza pudore, la capacità di fare cuccia nel cuore di un umano, di guardarlo e implorare pietà.
dal mio gatto ho preso gli occhi maliziosi, il crudele diletto nel giocherellare con le unghie con il cuore di un umano, lo spudorato venire quando c'è cibo, quando è disponibile, questa cosa di mangiare per conto mio, di lasciare teste di lucertola come mite manifestazione d'affetto. di guardare l'umano e concedergli altezzosa udienza.
si può essere cani e gatti nello stesso corpo e nello stesso giorno, ci si può azzuffare nello stesso sangue, io so, perché sono figlia di un cane e di un gatto, ed è un azzardo genetico, che non sempre genera creature resistenti. 

Con te sono un cane.

i giorni del cane sono quelli in cui tengo i brandelli di te, del tuo cranio, del tuo labbro - perfetto al morso sia quello superiore sia quello inferiore - del tuo seno, del bordo dei tuoi jeans, scuri e stretti. sento vibrare il ringhio ad ogni tuo strattone, lo strattone che tiri tornando alla tua vita, mentre io stringo i denti. 

ma tu sai come si convince un cane a demordere: allenti la presa, sciogli la tensione che corre tra mandibola e corpo, mi guardi e mi dici, cos'hai da mordere? perché mi tieni qua, mi trascini ora che non ho palline da tirare, ossa da gettarti, coccole da farti, istruzioni da darti, intenzioni di addomesticamento? io cane ancora ringhio all'aria, schiocco nel vuoto le mascelle.

demordere: dal latino mord-ere, dalla radice mardmared, tritare, dove è mard-n-ati in sanscrito, affine a mrnati, di cui si parla quando si parla di morte, in ogni caso il senso è quello dello stritolamento. il prefisso DE- scioglie la tensione mandibolare, solo dirlo costringe ad aprire la bocca, la mascella che serra un brandello del tuo fantasma, mentre tu sei già dietro di me, sei già diventata la mia coda, ora sono cane che si morde la coda, ora so che mordo solo perché sento tirare, è solo un istinto automatico, è il mio cane che ha paura. ora chiedo aiuto al gatto, quello che conosce il mistero di amare solo se stesso.

venerdì 3 marzo 2017

mantenuta

Comincia tutto con me che supero il tornello della metro di San Babila e dico al mio amico Luca: davvero non so cosa fare della mia vita. E lui, esclama: "Cara, questo si era capito da mo'. Sei confusa. Dai trovati qualcuno che ti mantenga e continua pure. Suvvia, un'altra persona confusa al mondo, oddio che noia".
Mi blocco come se qualcuno pronunciando un'odiosa formula mi avesse trasformato in una statua di sale che scende le scale mobili.
Quindi il mio mago mi ha detto quello che doveva dirmi e mi ritrovo nuda sulla banchina di San Babila. Forse sì, forse è quello che vorrei fare, gettare via tutto e lasciarmi accudire, lasciare ammorbidire le ossa, imbalsamare le certezze, provare profumi alla Rinascente, passeggiare su perimetri sempre identici, metterci mesi a scegliere un cane, disinteressarmene, non provare mai la paura, certi giorni non alzarmi dal letto per decidere di nuovo chi sono, lasciare che il giorno si svuoti come una vasca da bagno mentre screpolo le dita.

Sono cresciuta su due precetti fondamentali: si vota a sinistra e non ci si fa mantenere. Come se tutte le donne prima di me fossero esistite in un'immaginaria scala di evoluzione progressiva solo per portare me a essere indipendente, talmente indipendente da non dover rendere conto al mondo neanche dell'aria che respiro, dell'acqua che bevo e del sole che mi scalda. Indipendente come unità di completa autosufficienza.
Così forse con me, immagino, si può passare il solvente sul matrimonio di mia madre (sai, lui mi amava e questo mi sembrava una cosa bella, una cosa per cui vale la pena di ricambiare), sul matrimonio di mia nonna (l'avevano proprio assegnata a quell'uomo, non penso lo avessero neanche chiesto a lei, erano tempi difficili) e perfino sul matrimonio di mia sorella che è un capolavoro di equilibrismo tra sincero affetto e totale assenza di una progettualità personale.

Il giorno dopo ricevo un rifiuto sul lavoro, una prova di traduzione che ho fatto probabilmente in modo sciatto, perché diciamocelo, da quando ho voglia di fare le cose per bene? Vorrei incolpare il capitalismo della mia sciatteria (fanculo al "sistema" che mi fa sentire sempre inadeguata) e una parte di me pensa anche che potrebbe reggere come argomentazione ma sarebbe una stronzata perché sappiamo tutti quanto siano meravigliose le cose fatte bene.

Quindi non ho nessuna attenuante per la mia sciatteria: forse solo una generica mancanza d'amore. Alla mia terapeuta dico che potrei tornare a frequentare il mio amico d'adolescenza, quello che ogni tanto a distanza di anni ci si rivede, quello che mi farebbe sentire finalmente protetta, quello di buona famiglia, di ricche sostanze, che ha una mano abbastanza grande da chiuderla un poco sopra la mia testa e schermare il vento e la pioggia.
Quello, dice la mia terapeuta, è anestesia: perché dovrei chiedere l'anestesia prima ancora di provare dolore?
Le dico che ho paura e perché non dovrei cercare protezione, simbiosi, qualcosa di giusto e naturale?

Il mio dolore ha la forma di una botola, una specie di botola che si apre sotto ai piedi nei momenti più inaspettati. Di solito sono pensieri legati all'insicurezza, al fatto che potrei morire sola, abbandonata, dimenticata, potrei non trovare mai la mia strada, pensieri che abbiamo tutti un giorno o l'altro. Lo stesso senso di precarietà che tutti i giorni mi alleggerisce i talloni, quando c'è la botola, mi uccide.


Seguo il consiglio della terapeuta, lascio stare il progetto di circuizione dell'amico benestante e parto con te, che hai mani piccole e sempre desiderose di uno strumento. Siamo in una città dove vengono molti innamorati, noi no, noi siamo piccole bambine sperdute. Gli innamorati invece qua si tengono per mano. Come se fosse un accordo silenzioso di sottile tensione, diverso dal braccetto, dove qualcuno tiene con l'anello del proprio braccio e l'altro si fa sostenere. Il braccetto crea prossimità ma anche disparità.

Tenersi per mano è invece una continua negoziazione: a qualcuno viene in mente che sarebbe bello tenersi per mano. Quando? Soprattuto perché ci si tiene per mano? Qual è l'etimologia di questo gesto? Chi è stato il primo a tenersi per mano e a vedere che funzionava? Che succedeva qualcosa di bello quando due persone si tengono per mano.

C'è un rischio mortale nella prima esitazione: io di solito quando prendo la mano guardo da un'altra parte come se stessi cercando di sfilare il portafoglio, sono troppo timida per reggere lo sguardo di lieve sorpresa di qualcuno a cui viene presa la mano. (Quello sguardo penso di non averlo mai visto) Quando prendi la mano lasci che venga presa la tua. Sacrifichi quella mano per l'altro: non puoi muovere quella mano, non puoi usarla per rafforzare l'equilibrio del tuo corpo, quella mano si salda e la tua mano opposta diventa la mano dell'altro: se per esempio dovessi incontrare qualcuno potresti abbracciarlo usando il braccio dell'altro. Qualche volta le mani ondeggiano, qualche volta una mano tira lievemente l'altra, fino alla tragedia del palo della luce che separa gli amanti.

Ma non ci teniamo per mano noi, non serve. Nulla s'infrange della nostra reciproca figura, lasciamo tra noi due tutta l'aria che può esserci tra due corpi molto vicini, come quelle sottili intercapedini tra i vetri dei finestrini degli aeroplani, che creano uno spazio di aria compressa. La notte, quando hai smesso di suonare qualsiasi cosa ti capiti a tiro, ti tengo tutta nella mia mano aperta, come se riuscissi a raccogliere il pube, le natiche, l'incavo delle gambe, tutto ciò che sento sconfinato ma in realtà si raccoglie in una mano. Poi abbandono la presa, sento la tua mano, così piccola, una mano che non contiene nulla, che ha dita sfuggenti e ruvide, da guappo di strada. Ma si compie il miracolo del tatto, sdraiate ci teniamo per qualche momento le mani, in assenza di gravità, senza temere tocchi diseguali, come le mani di due alieni che si toccano per la prima volta. Gli amanti passeggeri sono buffi, sembrano scoprire in quel momento una cosa così ovvia come una mano. (Oh senti com'è liscia, che nocche grandi che hai)
Tu vieni da una terra dove dite "mantieni", quando passate un oggetto a qualcuno per tenerlo. Noi qua diciamo solo "tieni", come se fosse scontato che si tenga con la mano. Eppure c'è una cura, un'insistenza tenera e antica in quel "mantenere".
Mantenere: dal latino manu-tenere, che nel senso proprio vuol dire tenere fermo e fisso, tenere nelle medesime condizioni.
In questo senso, nel senso di essere tenuta ferma e conservata nello stesso modo non voglio essere mai mantenuta, ma di quelle mani notturne, le tue, che non so quando rivedrò vorrei mantenere il ricordo.








martedì 31 gennaio 2017

Megera

Mia madre è una balena. La sua casa è il ventre di una balena che apre le fauci e lascia entrare tutto l'oceano di cose che ci sono. Con calma onnivora le lascia entrare. La sua placida voracità non distingue tra armadi di arte povera valtellinese, libri di auto aiuto, cibi scaduti, coperte di pile, integratori miracolosi, il mahabarata, madonne laccate, una scultura raku, cadaveri di scarafaggi, spazzolini sfibrati, specchi di legno esotici, rosari fosforescenti, teiere sbeccate, bicchiere retrattili da pic-nic, pennette usb, occhiali senza bacchetta, occhiali senza lenti, merletti stinti, merletti splendenti, fasce idromassaggio della televendita, i miei disegni, i suoi appunti meticolosi e caotici, i miei topolini imbrattati di cibo, la collezione dei manuali della giovane ragazza per bene, i manuali per il giovane manager rampante, quadri interamente ricamati al punto croce, le tarme, panetti asciutti di lucido per le scarpe con cui mi lucidavo di nero la faccia da piccola, una busta da tre chili di proteina in polvere, un salvagente sgonfio, bauli senza fondo, un piccolo sapone alla rosa in cui si intravedono i petali incisi nella polpa, ma ormai logori, fili di cotone di tanti colori che spesso collegano le cose tra di loro, come fili d'Arianna senza nessuna Arianna a reggerli all'altro capo. 

Mia madre è una balena che comunica a distanza di oceani. Non ha tempo per le pulizie. Non ne ha neanche voglia. Anzi, diciamola tutta, non saprebbe da dove cominciare, resterebbe a fissare gli oggetti, a vederne il potenziale, a immaginarne gli usi, le destinazioni, quel foulard con i fiori stampati potrebbe servire a mia figlia, quella penna scarica un giorno potrà riprendersi, quel pupazzo di paglia intrecciata potrà rendere felice qualcuno, anche e forse proprio grazie alla sua innegabile bruttezza. 

Si sentono al sicuro le cose, a casa di mia madre, nel ventre di balena, che nulla digerisce e tutto accoglie. (Come ha accolto anche me, ultima dei suoi tanti figli, arrivata molto tardi, più grossa di una balena).

Qualche volta sento mia madre girare agitata per casa sibilando a bassa voce, con la gracile aggressività che i suoi lunghi anni di collegio dalle suore le concedono, "sarà stata quella megera".
Quella megera è una piccola donna filippina, che si muove con la rapidità dei piccoli e ride con l'irriverenza dei monelli, mentre ripeta un monotono "certo segnora, va bene segnora": mia madre un Golia in collant, lei un piccolo Davide, con uno straccio al posto della fionda. A Milano si può sentire tutto lo spettro di atteggiamenti possibili per battezzare queste persone che si prendono cura degli interni milanesi, sobri e solitari: c'è chi non ha problemi a parlare "del suo filippino", anche se filippino non è, fino a quelle che imparano la traslitterazione corretta del nome dal filippino per paura di passare da sporche colonialiste. Per mia madre, questa donna che piega in modo miracoloso gli asciugamani è semplicemente "la megera". 

La megera con i suoi piccoli passi svelti prova, cumulo dopo cumulo, ogni tanto lasciandosi scappare un "segnora, segnora" di rimprovero, a disincastrare le cose, riportare una funzione, non è stolta come me, che propongo esecuzioni di massa trovando un disperato rifiuto, un irremovibile attaccamento alle riviste del 1993. Piuttosto impila le decine di bloc-notes che si accumulano in cucina, attirando più gocce di miele che appunti sensati, affianca le bottiglie, allinea i flaconi di compresse, spolverando l'ovviamente inutile, rispettando il ventre della balena. Ma l'ordine della megera gioca qualche tranello a mia madre, che invece compone delle torri di babele, dei millefoglie composti da equilibri di progetti ordinati in cartellette e fogli stropicciati, suddivisi magari da una bottiglietta di crodino e una telefonata arrivata in quel momento, mia madre gioca sul confine tra materiale e immateriale, memoria e inconscio collettivo. 

Quando sibila "è stata la megera" molto spesso l'unica cosa che può aver fatto la megera è stato di appoggiare un libro su un altro libro, specialmente sul tavolino in cucina e il tavolino in sala, i punti nevralgici, la corteccia pre-frontale della casa, preposta alla gestione della memoria a breve termine, gli appuntamenti- soprattutto quelli importantissimi che sembrano sempre sul punto di perdersi -, i concerti gratuiti, gli indirizzi di persone appena conosciute.  
La megera è il trickster, il Pinocchio con cui lotta da sempre mia madre, la mia balena buona. 

Megera viene dal greco Megaira, da megairo, invidio, sono geloso, in cui si legge anche l'idea di grande in megas: la megera era una delle furie principale della mitologia greca. Una piccola donna, che con la sua mano vispa e pulita tiene in scacco la mia grande mamma balena che le concede un solletico settimanale, una grattata di ventre, che alle volte graffia un pochino. 








 

giovedì 12 gennaio 2017

NECROSI

Completamente necrotico, dice, mentre sento il suo ferretto grattare dentro - mi sembra incredibile avere qualcosa dentro di me così duro, che faccia quel rumore di pietra, di minerale. 
Mi ero accorta della decolorazione del mio canino destro a maggio, appena tornata dalla Grecia (più avanti imparerò che si dice discromia, quando ci ammaliamo tutto diventa greco). Non è che il dente fosse malato, stava proprio morendo, era irreversibile. Avevo interrogato prima internet, che subito aveva emesso la diagnosi: necrosi. Poi l'avevo chiesta a un dentista che aveva minimizzato, facendomi una foto del dente e dicendomi di presentarmi dopo sei mesi per riscontrare eventuali differenze. Il dentista era perplesso perché non riusciva a spiegarsi la causa della necrosi. Quindi eravamo rimasti sospesi, sulla soglia, lui incapace di darmi la cattiva notizia, io completamente incapace di accettare la fine.  

Ci siamo conosciute per un laboratorio di teatro e io ti ho subito classificata come etero senza ritorno +  neanche mi piacevi. Poi tu hai cominciato a scrivermi e io, che non sono proprio stragettonata nella sezione relazioni sentimentali, non sapevo neanche come rispondere, volevo quasi farti notare l'errore, o la mancanza di fiuto, ma insomma mi facevi ridere e una sera siamo uscite insieme, perse nella città, alla ricerca di un bar di somali dove poter giocare a biliardo, ma poi i somali non ci hanno fatto giocare e siamo restate a guardarli.
Giorni dopo siamo andate a cena in un posto bianchissimo, dove tu hai mangiato come un dragone e mi hai raccontato tutto della tua famiglia. Io avevo una specie di emiparesi facciale, la bocca, con un dente un po' più scuro degli altri, sospesa in un sorriso permanente da far venire le rughe agli occhi. 
Poi tu parti per uno stronzissimo laboratorio di recitazione. 
Io rimango a Milano, scoprendo quant'è strano sentirsi innamorati a Milano soprattutto se hai trent'anni e ascolti solo la Vanoni. Una città dove la fermata Gioia, quella dopo Garibaldi e prima di Centrale o viceversa, dipende da quale direzione stai viaggiando, si trasforma per la prima volta in un sentimento: la Gioia! Come avevo fatto a non capirlo. Ed era Gioia sempre, sia andando verso Abbiategrasso sia verso Gessate. Comincio a scrivere poesie che la mia terapeuta disprezza con un cenno della testa e assoli di butoh da quaranta minuti che obbligo i miei amici a guardare, senza prendere il fatto che si addormentino come un infausto segno. 

La necrosi - mi ero resa conto un giorno in un'agnizione fulminea - non era comparsa per caso: due anni fa durante un normale allenamento di boxe, mi avevano messo davanti un tipo che aveva la furia negli occhi. Avrei dovuto subito chiedere di cambiare partner, ma ho minimizzato, vecchio rituale d'impazienza, non mi sono protetta, perché dopotutto pensavo di essere invincibile. O che se anche fosse arrivato un cazzotto sarebbe rimbalzato sul viso, sul mio viso da cartone animato, sul mio cuore che è elastico e resistente, non duro e fragile, come il mio canino. 
Quando mi ha tirato quel cazzotto ha cominciato a ridere e io mi sono allontanata subito, non sono mai più tornata in palestra. Mentre mi ricordavo del pugno provavo a ricordarmi la faccia, volevo tornare in palestra, andare da lui dirgli, ecco, ecco, vedi. Neanche lo sai e hai completamente cambiato la mia vita. Mi hai ucciso un dente! 

Praticamente non facevo altro che guardare il mio canino destro e pensare a te. Guardavo il mio canino su qualsiasi superficie riflessa, cercando di vedere se avesse cambiato tonalità dalla sera alla mattina, cercando di cambiare illuminazione e scegliendo l'illuminazione giusta nei giorni in cui non volevo pensare che il mio dente fosse morto. 
Guardavo anche te, cercando di capire se stessi diventando più scura, più assente, se stessi scomparendo. Sei tornata da quel laboratorio, di quei laboratori di teatro stronzi intitolati come fossero orazioni funebri, e ti ho vista ingiallire a vista d'occhio: comincia tutto con il fatto che uno non ti cerca o ti risponde a malapena o non si ricorda cosa piccole che avete condiviso insieme. Al test del freddo il mio canino non risponde: ai miei messaggi tu non rispondi, o quando rispondi mi sembra di sentire una cortese receptionist che mi chiede se posso esserle utile. La receptionist è il primo segno di necrosi imminente.
Poi piano piano le tue risposte si fanno sempre più vaghe, ti invito fuori e tu prima mi dici che c'è una cena con il nonno e poi tiri fuori anche un farmaco nuovo che ti hanno cambiato e ti dà sonnolenza e mi viene da dirti, va bene, bastava il nonno come scusa, non c'è bisogno del nonno sotto psicofarmaci.

Un giorno decido di andare dal mio dentista d'infanzia, quello che sembra un elfo elegantissimo con la mascherina bianca sul viso. Mi dice che è morto, ma non cambierà nulla, che il dente devitalizzato è solo un dente meno idratato, un po' più fragile, con le mani fa un piccolo nido dove sembra accarezzare il mio canino immaginario, sembra promettergli un futuro comunque dolce e protetto. 

Io in quei giorni sto malissimo perché mi sembra di non sapere più cosa sia vivo e cosa no, mi maledico perché, chi si è messa proprio davanti a quel pugno? Non mi so difendere il lato destro: ho una cicatrice dovuta a una brutta portiera che si è aperta sul ginocchio destro mentre ero in motorino a Roma, ho due denti del giudizio già cavati sul lato destro e non mi sono protetta davanti a quel diretto. Due mesi di boxe, non una grande passione e il risultato è un dente morto. Per giorni passo il lutto, il lutto per questo piccolo pezzo di me "mortificato, incapace di riprodursi" come dice l'etimologico. Tutti mi dicono che è lo stesso, che un dente devitalizzato non cambia nulla, che potrò amare, vivere, riprodurmi anche con un dente morto in bocca. Un giorno, nelle mie continue meditazioni sul dente morto, mi dico che allora sarà il mio canino destro un piccolo promemoria a futura difesa: a ricordarmi di proteggermi da chi non si rende conto di quanto sia forte il suo diretto, da chi non sa quanto io sia fragile. A ricordarmi che ciò che è duro muore. 

Scegliamo il giorno della devitalizzazione. Quella mattina passo in rassegna tutti i rituali funebri del mondo per scegliere quello per il mio canino: ci sono quelli dei vichinghi che si fanno seppellire con le proprie schiave ma solo dopo averle fatte stuprare da tutti gli altri guerrieri, c'è una tribù in Africa dove quando muore il marito ci si taglia l'ultimo pezzo di tutte le falangi, in Madagascar invece continuano a danzare con il feretro per giorni e giorni in modo che non si addormenti nella sua strada verso l'aldilà. Alla fine con la mia amica accendiamo un incenso e ringraziamo il canino per avermi servito così bene tutto questo tempo e nel mio cuore gli chiedo scusa per non averlo protetto.  
Il dottore prende un lungo binocolo che invece di guardare all'orizzonte entra dentro il mio canino, dove trova gli ultimi resti di una battaglia persa, i nervi rantolanti, e sigilla il dente come un piccolo tumulo nella bocca. Parliamo di tutto durante la devitalizzazione, parliamo della sua passione per il Tibet, della colatura d'aglio, del suo assistente peruviano che non torna in Perù da trent'anni per scaramanzia. Sembra uno di quei funerali allegri in Africa, dove si festeggia l'anima del defunto. Eccoci, dice il dentista, tutto perfetto, non cambia nulla, né per funzione né per estetica. 
Quel giorno esco dallo studio del mio dentista elfo con un sollievo enorme. Triste ma libera. 

Riguardo le poesie che ho scritto per te. Fai rima con -parola, -vola, -scuola ma poi mi rendo conto che l'unica parola che fa rima con il tuo nome è sola. Ti scrivo e usciamo. Miracolosamente ti presenti. Passeggiamo per Milano e tutto è come nei sogni di me e te che passeggiamo per corso Garibaldi, salvo che ci stiamo praticamente consegnando al patibolo. Ti racconto del mio dente morto e tu mi mostri una piccola stella d'oro che hai attaccato sul canino inferiore.
Andiamo a Corso Como 10, c'è la mostra di Araki e questa cosa rallegra entrambe. C'è tutto quel sangue, quei corpi femminili legati da corde, i fiori talmente colorati da essere lugubri. I pupazzetti dei dinosauri mutilati sono buffi. Usciamo e scendiamo in metro - non prima di aver provato goffamente a invitarti a cena ma tu hai sonno/nonno/e altre scuse -, superiamo i tornelli e io:

IO: Ti chiedo un favore ora.
TU: Cosa?
IO: Ora guardami negli occhi e dimmi che non esiste la benché minima possibilità che io e te si costruisca una relazione. 
(Sei dolce, mi guardi negli occhi e rispondi)
TU: Sono molto molto molto innamorata di una persona.

Continuiamo la conversazione senza particolari drammi, tu mi dici che ti ho dato tanto, io scherzando ti dico che la tua storia non funzionerà, tu dici che la cosa ti sta già facendo male, io segretamente ci godo, poi scopro che si chiama come mi sarei chiamata io se fossi nata maschio, come se in una vita parallela saremmo potuto essere insieme. Nei toni siamo come due persone che parlano di progetti per la serata prima di dividersi tu verso Gessate, io verso Porta Genova, tu incontrerai Gioia alla fermata dopo, io non proprio.
Sento che da qualche parte in mezzo al petto un dolore si spegne. Devitalizzato. Era quella piccola stretta di speranza che mi dava angoscia, era la possibilità di vederti ancora che mi torturava. Ora quel dolore ha smesso di esistere. Certo, quella specie di effervescenza è morta ed è morto anche qualcos'altro a cui adesso non so dare un nome. Ma almeno è finito il dubbio.
Devitalizzata. Non è la stessa cosa come essere vivi, ma all'apparenza non cambia nulla. Nè per funzione, né per estetica.

Oggi c'è anche la luna piena.  La prima luna piena del 2017. Una luna piena di luce riflessa, una luna sbiancata dal freddo, una luna che rinomino Luna del Mio Canino Morto. Che dedico a te, Piccolo Dente di Stella.

NECROSI: dal greco nekrosis, mortificazione che si riferisce alla radice sanscrita naç- perire che è in nac-ami, sparisco, mi perdo, perisco che si confronta con lo zendo naçu, cadavere sino pure al latino nex, morte.

venerdì 23 settembre 2016

Sincera

Tu ti sposti, perché il tuo regoergometro è rotto. Allora ti siedi di fianco a me. Io sono talmente abituata ad arrossire in queste circostanze che davvero non ci faccio più caso: ho la calma pericolosa della piastra rovente. Soprattutto guardo in basso. Rossa e sguardo basso. È la mia tattica di seduzione. Ah, sì, rossa, sguardo basso e niente ceretta. Infatti mentre continuo a remare comincio a guardarmi le ginocchia, il punto più bastardo, dove i peli crescono con una violenza da bulli, anche se devo dire che toccarli contropelo mi rilassa abbastanza. Nonostante l'accanimento della mia estetista che ne ha fatto una sfida personale, quei peli non si levano, restano, come i palazzi brutti a Gratosoglio. Tu cominci a remare di fianco a me, con il tuo attacco slanciato, elegante, spingendo senza sforzo quei sei o sette chilometri di gambe abbronzate che non sembrano affatto risentire del fenomeno del pelo da battaglia. Poi l'istruttore ci vede un po' troppo sbarazzine e fa partire un tremila.  Che vuol dire remare tanto. Tu sei capovoga. Io sono felice. Potrebbero essere le prove generali del nostro amore, visto che ancora non ci conosciamo e non ricordo il tuo nome, ma tu hai il sorriso più bello dell'universo e l'altra volta quando avevamo finito di vogare tu mi hai battuto il cinque e da lì ho capito di essere innamorata perché non ho mai provato nulla per qualcuno che mi avesse battuto un cinque, ma con te invece è una sensazione di sublime demenza.
Remare insieme prevede una connessione particolare: parti da una posizione comune tenendo i remi alla pancia, spingi i remi in avanti piegando le ginocchia e il carrello e poi di nuovo ti spingi indietro per dare il colpo. Tutto questo deve avvenire all'unisono, mentre il remoergometro calcola giri di pala e altri numerini. È difficile che accada se non si respira insieme e trovo questa cosa infinitamente romantica. Con la coda dell'occhio guardi sempre il capovoga per assicurarti di essere con lui, né in ritardo né in anticipo. Quindi mentre per esercizio devo assicurarmi di andare al tuo tempo comincio a farmi clamorose seghe mentali sul fatto che se fossimo in un film ora uno sceneggiatore ci avrebbe infilato una conversazione telepatica in cui io e te, con il sangue che pompa alla stessa velocità e il respiro che trangugia e sputa la stessa aria nello stesso momento, parliamo con il pensiero perché il canottaggio ha fatto il miracolo. Soprattutto dopo venti minuti di voga continua io ho smesso di pensare ai miei peli e spero che nella fatica tu non abbia davvero visto i miei. 

Apro una parentesi per descrivere il conflitto interiore che mi divora riguardo ai peli superflui: vorrei abitare in un mondo in cui il pelo superfluo venga accettato perché è sessista e ingiusto che la donna debba pagare e soffrire per la pelle liscia, ma perfino io li trovo inaccettabili - e vado in giro in modi deprecabili con una mamma che mi urla spesso "no, in pigiama con te al bar non ci vado"- quindi mi ritroverei a creare un mondo di cui neanche io vorrei far parte.

Ritorniamo a noi che remiamo. L'istruttore ci ordina lo stop quando ormai le braccia non le sento più e non riesco più a spingere. Tu invece. Ci alziamo, andiamo sul prato, facciamo gli ultimi esercizi del massacro. Mentre ci scassiamo di flessioni, saltelli, balzi e addominali penso che però è bello condividere questi momenti di sforzo. Certo i fari illuminati evidenziano il mio pelo ma a questo punto mi sento come una donna nel bel mezzo di un parto che ormai non ha più nessuna dignità da difendere e neanche gliene frega una mazza. 
Poi finisce l'allenamento. Io mi allontano ripercorrendo nella mente tutte le possibili scuse che avrei per poterti rivedere, visto che poi forse ci smistano di squadra e io potrei - Laura Pausini aiutami a dirlo tu bene - non rivederti mai più. 
Poi tu mi raggiungi mi tocchi una spalla e mi dici hei, tu da che parte vai?
La frase suona come l'orgasmo di cento angeli ma poi mi volto con l'ansia di un concorrente di rischiatutto alla domanda finale: siamo sui navigli, o di qua o di là, ho cinquanta per cento di possibilità di rispondere dal lato sbagliato. Ma ormai mi hai visto i peli, il sudore su cellulite e il tremolio della carne ai balzi e puoi vedere di me anche un certo impaccio quando indico di là. ma se vuoi t'accompagno! (dove? perché? E poi non serviva! Tu vai nella stessa direzione!) Tu mi sorridi e cominciamo a camminare. Io sfodero la mia solita tattica di rossore e sguardo basso che unisce me e Humphrey Bogart, passando per lo Yeti, in una lega immaginaria della sfiga in amore.
Però ci mettiamo a prendere in giro l'istruttore e gli altri e allora ridiamo: nel reparto derisione altrui per sciogliere la tensione vado forte.  Hai davvero il sorriso più bello dell'universo.  
Poi tu mi chiedi il numero. Io rispondo con quella disponibilità appena troppo accennata che vorrebbe passare per disinvoltura ed è invece senza dignità come il mio gatto quando verso i croccantini. Poi mi saluti e ti allontani. Poi ti volti, ritorni e mi dai un piccolo bacio sulla bocca, poi sfuggi. Ma io sono piuttosto perplessa. 
Sì, perché non è che io sia proprio una che si vede. Alcune hanno una camminata più maschile, alcune un abbigliamento, altre ancora qualcosa di forte nei lineamenti. Ma io sono una lesbica poco definita né in grado di vivere con grazia quei momenti. Cioè se smettessi di essere lesbica domani dubito che qualcuna se ne accorgerebbe. Che abbia voluto sfidare la sorte? Come sapeva da un tragitto di pochi metri che quella simpatia era già attrazione? Poi ho capito, erano le mie gambe sincere.

Qui arriviamo alla parola di cui volevo parlarvi: SINCERA. 
Sincera deriva da SINCERUS che dicono composto di SIN, senza e CERA; cera. Si dice di qualcosa scevro di finzioni, che alcuni fanno derivare dal miele senza cera che è puro, mentre fanno riferimento agli scultori che non usavano la cera per mascherare i difetti delle loro sculture. Così io sono stata sincera con te da subito, e non ho usato nessuna cera, né d'api né al titanio, per mascherare un incredibile irsutismo. Questo fa di me una persona letteralmente sincera.
Dal momento che sono proprio sincera è bene che io precisi che da "Poi tu mi raggiungi..." in poi ho inventato tutto e che se devo essere sincera era meglio se a sto giro una cera me la facevo, che neanche le lesbiche impazziscono per i peli.  









 

domenica 15 febbraio 2015

slavina

dicono che le slavine annunciano la primavera.
dal latino tardo labina, derivazione di LABI, ossia cadere, scivolare.


Dicesi slavina:
piccola ma pericolosa valanga, che di solito scende da pendii laterali scoscesi delle montagne, per lo più durante il disgelo invernale.

ma pericolosa, dice.
piccola - ma pericolosa.
siete sempre pericolose, voi piccole.
per lo più durante il disgelo invernale.

io sono una montagna con pendii scoscesi.
(scoscesi sono tutti gli incavi del mio corpo, carne a oltranza, pornoargilla tremolante).

noi montagne ci facciamo fare qualsiasi cosa. E' il nostro stare montagne, è il nostro offrire superficie e spazio alle slavine. E' il nostro offrire catastrofi in caduta libera. Noi montagne permettiamo stragi senza fare assolutamente niente. Se ci vedono vacillare, se ci vedono ondeggiare, pensano sia la terra che ruota sull'asse. ci vogliono millenni e migliaia di slavine ma pezzetti della montagna si sgretolano e rotolano avvolgendosi alle valanghe di neve che ci attraversano, è così che strato a strato, pietruzza dopo pietruzza, voi slavine ci scavate via e ci portate a valle. 


vorrei
qui per effetto
della gravità sintattica
farvi sentire il ruggito delle slavine,
una galoppata di lacrime, sperma fonetico, sudore, umidore, liquido,
splendore scivolare lungo le mie superfici scoscese con lievi
smottamenti,
di te che abbassi il viso e guardi e incoraggi questo franare di scudi, scuse,
rapidità, stalattiti d'imbarazzo, gambe granitiche, circolazione sanguigna terrorizzata,
con naso perfetto e sguardo volpino - dio lo sguardo - regni su ogni incavo, mentre annusi gli odori di ogni altrove e diventano tuoi, scaldi il corpo e neutralizzi il desiderio, presente come l'ossigeno, nessun segreto il desiderio, ora tra noi tutte, si presenta con lo stesso sapore dell'aria, entra ed esce, respira e imbocca linfonodi, capelli, tessuti invernali, costine, detersivo, distese di buono, di zolfo, di pungente, di tabacco, di niente, di me, posso essere io ma non lo sono, è mia la mano? è mio il piacere? è nostro? da dove sei caduta slavina? stai continuando a cadere? quanti villaggi vuoi coprire, quanti corpi godere, quanti fiato per sciogliere le tue nevi. Io ancora provo a ripararmi dalla slavina, infilo il naso nello spazio tra il seno e l'ascella, come un gatto respiro l'antro oscuro delle ali, quello spazio di cesura che apre l'abbraccio, tenersi strette mentre passa la slavina.

e ora?



venerdì 13 febbraio 2015

viola

piccolo interrogatorio al colore viola come persecutore cromatico dei miei giorni.


tu eri viola, anzi violetta, quando sono nata, mi hanno messo in braccio a te, che aspettavi la mia nascita leggendo il topolino. hai creduto di odiarmi sentendo il mio arrivo, disegnavi grandi mostri sul muro, dicevi tu, no, non sarai mia sorella, non sarai altro me, solo mia la mamma, solo mio il papà, solo io a scatenare i capelli al vento mentre tutti ridono. Invece quando mi hai vista hai deciso che ero solo tua, né di mamma, né di papà. Da allora sono stata la tua bambola, prima mite sbrodolina, poi chucky, spesso bambola assassina. Tu viola, tu violatrice, violenta eri violenta ma violenta anche d'amore che qualche volta mi stringevi così forte da confondere i denti e le mascelle, io e te sorelle, che quando ci dimostriamo affetto sembriamo ringhiare come cani.

Tu eri il mio violino a undici anni, ti avevo scelto perché un pianoforte costava troppo e sembravi essere  modesto nella presenza. Invece nelle mie mani tiravi suoni strazianti, scorticavi le dita - la punta dell'indice e del medio che soffrendo ti dedicavo. Per entrare nei tuoi misteri avevo un maestro grosso con i capelli e il naso rosso e due mani che potevano frantumarti solo toccandoti. Eppure con lui i tuoi suoni erano saltelli di vespa, con me lamentazione d'asina. Ti ho mollato, allontanandomi in silenzio, sperando non ti accorgessi del mio abbandono. Non so come, sei arrivato nel fondo di un armadio e qualche volta la notte ci pare di sentire un pianto, un pianto di vecchio, forse sei tu, violaceo di silenzio.

tu eri viola quando avevo quindici anni e ti ho chiesto da accendere - sottinteso "mi intossichi ti prego?"-
Stesso liceo, tu bionda, io mora, tu luce, io ombra, tu ordine di parquet, io sporco di catrame, tu tuttiragazzi, io luposenzafidanzato. Alla sera pensavo a come farti ridere il giorno dopo, non ho mai capito di essere innamorata di te. piango per la tua voce cristallina, piango per le tue vene al led mentre nelle mie scorre la pece. Tu studi ad orari stabiliti mentre io vorrei vederti, forse solo perché non voglio studiare. tu stabilisci, tu dimagrisci, tu ambisci, ci perdiamo di vista. Ricordo ancora quando ti chiamai per dirti che andavo a vivere in un'altra città. Hai cominciato a singhiozzare lacrime d'uvaspina, inaspettata sorridevo per quell'improvviso e inaspettato scioglimento di viola.
Ma eri bionda, se proprio vogliamo precisare, al viola non ci sei mai davvero arrivata.

Violetti gli ultraraggi che mi uccidono al mare.
Viola l'ultimo chakra che è la frequenza dello spirito.
Viola le più sottili vibrazioni dello spettro solare.
Viola che porta sfiga agli attori.

Viola è affine al greco ION che aveva un'aspirazione al posto del digamma eolico e della V dei latini, che infatti hanno nello stesso ceppo VIERE, annodare, intrecciare da cui il senso di flessuoso.

Viola che oggi è un cespo di ricci che ondeggia e si avvolge ai miei passi, al mio sguardo, si avviluppa ad ogni domanda. T'ho visto l'altra sera che ballavi. 
Mi hai guardato,
mi hai chiesto: sei tu?
ti ho detto, sì e tu? sei tu?
Hai detto sì.
Poi ti ho seguito fino in bagno ma sei scappata via di nuovo, troppo bagno, troppo io, troppi ricci tutt'e due. La tua amica era anche dispiaciuta, pensava che come abbinamento, di colore e di cuore, andassimo proprio bene. Tu viola, io terrore.
Ho capito dopo che eri lesbonazi anche tu, una razza pericolosa per me che sono eterosemita.
Non ti ho pianto, non ti ho desiderato. Ti ho sezionato, ti ho reciso come un bel fiore da donare all'aria che lo seccherà.

Ti ho rivisto l'altro giorno su un vassoio di vasetti di viole del pensiero, all'esselunga, dove affogo i dispiaceri guardando scaffali di offerte, tutte mie, tutte speciali. Ho pensato a tutte le piante che ho sterminato. ti ho vista nel viso dolce di una viola a strisce gialle. mi hai guardato, costo poco hai detto, dai sì ti trapianto ho esultato, poi ho pianto perchè non ho tempo nè voglia di essere il tuo carnefice. Ti ho chiesto, piccola viola, frequenza misteriosa e quaresimale, viola, colore viola, sorella viola, strumento viola, amica viola, amante viola, cosa posso fare per te? perchè ti avvicini e poi ti neghi? perchè mi accosti e poi di nuovo sfumi? 
Dicono i saggi che un eccesso di viola può provocare malinconia e perdita del senso della realtà e di concretezza. 
In questi giorni prego a piccoli sospiri di essere daltonica, di perdere il settimo chakra e con lui la ghiandola pineale e tutta la violenza viola.
Prego di dimenticare in fretta quella fetta di viola che per una frazione di secondo ho intravisto nella parte più bassa di un arcobaleno visto dal treno. Ero al telefono con un'amica e ho urlato: è viola, l'arcobaleno, viola! Per un attimo ho pensato fossi tu. Poi ho capito che era l'umidore del finestrino in uno strano, perfido gioco di luci della pianura invernale. 

piccola, invisibile, nota di speranza: quando c'è un doppio arcobaleno il viola è l'ultimo colore che preannuncia e crea il rosso. E' il simbolo della rigenerazione, della vita che rinasce dopo la morte. Spero solo tu sia quindi una spietata violazione del mio sacrosanto diritto all'amore prima dell'arrivo di un'insensata felicità.