lunedì 22 marzo 2021

vecchia

Mi sono ritrovata vecchia senza neanche saperlo. Me l'hanno detto un giorno delle persone più giovani di cui però mi sentivo coeva. E invece mi ero macchiata della colpa di essere vecchia, passato il tempo in cui potevo sentire il mio sangue schizzare forte. Il mio sangue ora solo calmo. Mi sono detta che non ero poi vecchia. 

Ma poi ho pensato che sono i vecchi quelli che vivono meglio, se sanno essere vecchi. Io posso parlare del mio essere vecchia prima di esserlo: nell'essere vecchio c'è una conoscenza dei gesti, del proprio ritmo, la misura di un angolo della casa, il sapersi guardare da una reazione impetuosa, perché la si è attraversata mille volte. Questo mi piace dei vecchi, che si fermano, rinunciano all'azione perché sanno che è illusoria. Attraversano il tempo guardandosi da fuori, i vecchi.

Eppure quando mi dicono che sono vecchia lo dicono sempre come se fosse una cosa brutta. Mi sono chiesta se nell'etimologia della parola vecchia ci fossero radici marce, gengive senza denti, capelli sfibrati, culi che si sciolgono e si attaccano alle ossa. Mi sono chiesta se ci fossero le impressionanti vagine imbiancate delle vecchie. 

Ma vecchio ha una radice etimologica sorprendente nella sua ovvietà. È un diminutivo di vetusto, da vetus, vecchio in latino, che a sua volta deriva da vatsas, o vatasas, che in sanscrito significa anni. Con il suffisso -ustus diventa aggettivo come robu-stus. 

Vecchio quindi è annoso, un annoso problema e una persona annosa, una persona che ha fatto degli anni la sua caratteristica. C'è quella affascinante cesura in vatasas, come uno sforzo e un'imprecazione. Ma vataaaaasas!

Che a ogni anno libero un'imprecazione mentre mi accorgo che vorrei essere vecchia senza diventare vecchia. 

Diverso è il caso dell'etimologia inglese, e quanta diversità comunica questa biforcazione - dove old deriva dal protogermanica althaz, che significa adulto, cresciuto. 

Loro crescono, noi accumuliamo anni.

Io rimango ferma. 



martedì 17 dicembre 2019

amore

Non l'ho mai detto. Penso che sia una di quelle cose che se non le dici spesso ti muffiscono in bocca e quando provi a dirle senti che sanno di alito chiuso del mattino. Ma a noi succede qualcosa di strano: cominciamo a sentirlo capitare alla fine di una frase, veloce come un topino che si infila negli interstizi di frasi banali come "andiamo", "ma dai", "sei sicura?"

Poi ci sono giorni che fluttua nell'aria imprecisa come il primo abbozzo di fonema di un bambino (avrà detto mamma? È lallazione? Vuole il latte? Ha capito le implicazioni relazionali della cosa? Le ho capite io?).
Poi un giorno è chiaro, non ci sono dubbi: mi ha detto "Ma certo, amore".
Comincio a farmi le stesse domande: ha detto davvero amore? O ha detto mamma? È lallazione? Vuole il latte? È preorgasmico? Ha capito le implicazioni relazionali della cosa? Le ho capite io?
Ho la sensazione che la cosa sia nuova e divertente anche per lui, una specie di territorio inaspettato. 

Comincia a diventare un gioco, il nostro ping pong preferito. Amore/amore. Amore/Amore. Amore mi passi la borsa?/Certo amore. Amore sono in ritardo/va bene amore. Nessuno lo tira mai troppo lontano, nessuno fa mai uscire la pallina dal tavolo, sembriamo due cinesi al campionato nazionale di ping pong. Ci teniamo questo amore che sembra una cosa da vecchi ma per noi è una cosa completamente nuova. E poi ha ritmo, scandisce meglio le frasi. Diventa un'abitudine.
Mi capita di ricontrollare la chat per verificare l'equilibrio delle parti: lo dico più spesso io? Quando lo dice lui? Lo dice nei vocali, ma non nei messaggi, affascinante, chissà cosa vorrà dire. Lo dico più spesso io, sempre. Lallazione?

Poi una notte - dopo infiniti indizi che mi fanno chiaramente sospettare che provo qualcosa di indescrivibile e infinito per lui - mi rendo conto che sento il bisogno urgente di dirgli che lo amo, perché glielo devo proprio dire. È proprio come quando un detective scopre il colpevole, sente una gioia infinita, è una rivelazione. Ho sbrogliato la matassa, ho capito che cazzo mi succede: ti amo. È una sentenza definitiva.

(ti prego lettore, sappi che lo so che questo ti amo dura per oggi, e non so quanto durerà, ne diremo altri ad altre persone, ma quello di oggi è vero per me) 

Ma la mia mente diventa di colpo un magazzino enorme spoglio e vuoto, capannoni e capannoni di spazio buio dove queste due paroline si perdono, comincio a camminare, non so come si dice ti amo a una persona. Mi sembra di non poterlo dire oggi, nella notte tra il 16 e il 17 Dicembre 2019, mi sembra non ci siano i presupposti storici, etici, politici, climatici, narrativi, filosofici e finanziari perché io possa dire ti amo a qualcuno. 

"Senti devo dirti una cosa". Credo doveroso, prima di proseguire nel racconto, avvertire il lettore che mentre proclamo questo annuncio il suo cazzo si trova dentro di me da ormai circa 30/40 minuti abbondanti (ora più ora meno, quando faccio l'amore il tempo mi si liquefa tra le gambe). Lui all'inizio non sente, sospetta sia lallazione ed è giustamente preso dal suo progetto di godere dentro di me, quindi non fa tanto caso. Gli ripeto all'orecchio "Devo dirti qualcosa". Lui risponde sospetto. "Cosa?". Di nuovo mi blocco, paralisi, tergiverso. Come glielo dico? Mi ricordo che mio padre, quello che in eredità mi ha lasciato un mucchio di parole, mi diceva sempre "Sai quando ero un po' imbarazzato, per non dire ti amo dicevo 3 words, che in inglese equivalgono a "I love you"". In quel tempo infinito in cui lui continua a chiedermi cosa c'è - sospeso tra timori di gravidanze e lancinanti dubbi di tradimento - e io prendo tempo e dico "aspetta non so come dirtelo", decido che devo trovare anche io un modo di comunicare che non sia la parola perché da parte della mia bocca non avrò collaborazione. Ti amo si è nascosto da qualche parte sotto la lingua e non esce. 

Allora faccio quello che mi viene meglio. Scrivo. Prendo il dito e glielo scrivo sul petto, partendo da sinistra a destra: ti amo. In stampatello. Senza il punto sulla i perché appunto è stampatello. 

Lui mi risponde anche io. Volevo dirtelo. Non sapevo come.
Rimaniamo abbracciati forte.
(Il suo cazzo a questo punto è uscito a godersi lo spettacolo di due persone che si sono appena dette qualcosa di storicamente impossibile.)

Ah, la parola amore non ha etimologia per me, l'ho fatta nascere io oggi, non ha radici, non ha provenienza, l'ho probabilmente ricevuta come pulviscolo sottile, insieme alle radiazioni di Cernobyl. Ma chi può saperlo.




mercoledì 3 aprile 2019

acqua

Vedo che non ti importa, mi dici. Siamo in piedi nella mia vasca da bagno che è una di quelle vecchie in cui per entrare devi piegare le ginocchia. Io sono seduta nella parte più alta, tu sotto dove c'è lo scolo. Sono appena più alta di te e ti insapono la testa e ti bacio senza distinguere più la bocca, dal mento, dal sopracciglio, dal capezzolo, dalla piega dell'ascella. Tutto mi sembri di acqua. Sei dei pesci, questo di te l'ho saputo prima di incontrarti perché si vede sul tuo profilo Facebook. Non ci credo a questa cosa dei segni. Però ci credo. Tu tieni in mano la cornetta della doccia che invece quando sono da sola maneggio io per darmi piacere. 

Il segreto piacere dell'acqua è iniziato un pomeriggio per puro caso, credo intorno agli undici anni (esiste un'età incomprensibile tra gli otto e i dodici dove tutto si mescola, infanzia e precognizioni di morte, acuta coscienza di sé e capriccio atomico, innocenza e malizia giocano nella stessa squadra): a undici anni io leggo i fumetti in bagno e faccio il bidet. Appoggio i fumetti sulle piastrelle ghiacciate del bagno davanti al bidet. Apro il rubinetto al getto massimo, il cannello del rubinetto ricoperto con una leggera maglia d'acciaio che trasforma l'acqua in una schiuma violenta. Ruoto il rubinetto fino a miscelare la giusta quantità di acqua fredda e acqua calda (più calda però),  mi siedo sul bidet dando le spalle al rubinetto. Non so quando ho capito che il passaggio dell'acqua tra le gambe mi faceva sentire bene, non era già piacere sessuale, era solo un'intuizione di piacere, come quando alcuni scoprono che il rumore del phon li rilassa o vedi qualcuno che ti sta simpatico, non sai dire all'inizio perché. (I miei undici anni, una persecuzione di dolore, io attenta studiosa di tutti i possibili antidolorifici legali per poterlo placere). 
Poi un giorno mi esplode un orgasmo tra le gambe mentre leggo topolino. (Ci avrei messo poco a trasformare il mio immaginario erotico  introducendo cazzi eretti, spinte furibonde, tette strizzate, sudore, prevaricazione ed estasi ma per quel mio corpo undicenne tutto proteso al piacere come un fiore che cerca di raccattare le sue ore di sole sul balcone, le entusiasmanti indagini di topolino e le canoniche sfighe di paperino non avevano interferito in alcun modo con quel sorprendente orgasmo) 

Un orgasmo. È come scoprire di avere un superpotere. Come finalmente sentire che questo corpo che sembra così fuori controllo e bisognoso è capace di un immenso piacere che mi lascia tremante, senza fiato, rossa sulle guance, percorsa da un piacere propellente che mi apre il terzo occhio, già a undici anni un obiettivo prioritario. Da quel giorno l'acqua è il mio amante. 
Quando posso - posso sempre, sono spesso sola - mi ritiro in bagno, chiudo tutte le porte a chiave - per paura che il gatto possa magari entrare - e mi lascio scopare dall'acqua. 

Ma tanto si asciuga, ti rispondo. Mentre ci baciamo nella piccola vasca dove si fanno il bagno le nonne, io ti sciacquo il sapone dai capelli, ci riempiamo di baci liquidi e spruzziamo tutta l'acqua fuori. Una parte finisce sull'asse del water che è immediatamente di fianco alla piccola vasca e comincia a colare per terra. Buona parte finisce direttamente a terra e colora di nero lucido le piastrelle, conquista il tappetino, ne invade il rosa pallido con la rapidità silenziosa dell'impero romano convertendolo al rosa scuro sottomesso, organizza capillarmente la sua pesante presenza. 

Acqua: il liquido formato dalla combinazione dell'idrogeno coll'ossigeno e che per accrescimento o diminuzione di calore, dilatandosi o condensandosi passa allo stato sia di vapore e di gelo. 
Deriva dal latino AQUA che viene congiunto alla radice AK, piegare, e si ritrova nel gotico ahwa, l'alto tedesco aha e il celtico ache

Il mio amante che si piega: questa è l'acqua. Apro il rubinetto e aspetto una spinta che si piega su di me, sul clitoride. Di questo sono grata all'acqua del suo piegarsi alla trasformazione, di concedersi all'unione, ma io ho undici anni e questo non lo so, so solo che spinge senza far male, penetra e mi scioglie. All'acqua consacro il mio primo orgasmo, all'acqua rimango fedele, dell'acqua mi fido. 

Ancora di te non mi fido - come potrei - della tua acqua, invece, subito. 

Ah tu ragioni così, mi dici. Ti dico di sì, ma mi chiedo se ci sia qualcosa di sbagliato a pensare così, se sia poi vero che l'acqua per terra asciuga. Ma l'acqua si asciuga. L'acqua asciugherà, usciremo da questa vasca, io per un attimo penserò di darti il mio accappatoio ma poi penserò che forse ti fa schifo - ci conosciamo da due giorni possiamo mescolare tutti i nostri liquidi ma forse il mio accappatoio ti fa impressione - allora prenderò un asciugamano colorato e te lo sfregherò su tutto il corpo, resteremo seduti sul divano per qualche minuto per finire di asciugarci, forse ci daremo ancora baci ma senza esagerare che abbiamo appena fatto la doccia e nel frattempo tante gocce d'acqua si dissolveranno nelle fughe tra le mattonelle e cominceranno il loro grave inesorabile viaggio verso il piano di sotto dove vivono C ed M che ancora non vedono la macchia che ci metterà anni a manifestarsi. Raggiungeremo a fior di cemento la stazione Centrale nel primo pomeriggio - le gocce cominciano a infiltrarsi alle dodici - ci daremo gli ultimi baci che sanno sempre meno d'acqua e sempre più di umano, metabolico, residuale, personale e sedentario umano salivare. Prenderai un autobus poi un volo per Rennes  - che hai pagato 19.99 euro, forse 24,99?- e già sul volo sentirai asciugarsi il mio odore sulle guance, ma non lo ricollegherai a me, piuttosto a un generico ricordo simpatico dell'Italia che laverai nel lavandino del nord della Francia dove niente asciuga mai perché piove quasi sempre. Io nel frattempo proverò a coprire rapida il tuo odore con le lacrime di chi parteggia per l'acqua che scorre, per te che scorri e fluisci - è giusto, è così, questa è la libertà di cui siamo affamati - ma dentro ci sono acque tue reflue che penetrano nei tessuti, avanzano dentro le ossa. Non asciugano. Le persone che mi scopo di solito non asciugano. Diventano ritenzione idrica, diventano acqua che non idrata, non disseta, solo pesa. Come posso dissetarmi del tuo veloce passaggio torrenziale. Continuerò a fare la doccia insieme a qualcuno che non conosco e non conoscerò mai e gli dirò non ti preoccupare che asciuga.
Ci vorranno anni prima che C mi suoni al campanello per dirmi che c'è un'enorme macchia sul soffitto del bagno, mi dice, non ce ne siamo mai accorti fino a stamattina quando una goccia mi ha bagnato la fronte mentre sedevo sul cesso e io penserò a tutte le volte che ho detto "non preoccuparti, asciuga". 


venerdì 30 novembre 2018

consenso

Una sera a cena con amici conosciuti da poco mi trovo a raccontare questa storia, per puro spirito di provocazione:

ero appena rientrata in Italia e avevo bisogno di essere toccata, una cosa di cui ho spesso bisogno, il contatto umano. Molti dei miei amici erano partiti e di altri avevo perso i contatti, letteralmente. Mia madre non è un tipo da coccole, non ho un gatto, una conversazione skype non ha la pelle e quindi decisi di comprare un massaggio.
Avevo pochi soldi ma tanto desiderio quindi l'offerta di un centro massaggio orientale per un massaggio a 15 euro rispetto ai consueti 60 mi sembravano l'unica via percorribile al fottuto self-care.
Entravo per rilassarmi, ma qualcosa nei vetri oscurati, nella grafica, nel ritratto della signorina orientale in vetrina che mi sorrideva in mezzo alle palme mi comunicava una segretezza sospetta, qualcosa di sconosciuto e proibito e poi forse una parte di me era perfettamente a conoscenza del fenomeno dell'happy ending. Ma al tempo stesso io volevo solo un massaggio. 
Entro, dico 'voglio quel massaggio, quello da 15 euro', la donna cinese che gestisce il posto con una perfetta messa in piega senza dire nulla mi consegna una bustina quadrata di plastica contenente il tanga, come quello si indossa nei centri estetici quando vai a fare la ceretta. 




Senza tante cerimonie mi infilo nella stretta cabina dove c'è il lettino, gli ambienti diventano sempre più piccoli, mi assediano sempre più stretti. Mi spoglio, mi infilo le mutandine ed entra un piccolo uomo cinese dal sorriso dolce.
Per un assurdo pregiudizio iniziato chissà dove e chissà come sono incapace di mettere in relazione i cinesi e il sesso. È una specie di pathway neuronale inattivo. Non mi pongo quindi neanche il problema, anche se sento emergere una leggera sensazione di disagio, che confondo con curiosità che poi decido di impastare con tanta compiacenza perché comunque, è bene ricordarlo, volevo un massaggio, solo un massaggio, non volevo sollevare problematiche di genere, confini e consenso, soprattutto con una donna d'affari cinese che gestisce un centro massaggi in centro a Milano. Mi sembrava troppo per una persona che vuole solo un massaggio. E poi il piccolo uomo cinese era molto diverso dai muscolosi massaggiatori che di solito intervengono nella mia fantasia preferita, quella appunto del centro massaggi. 

Mi stendo sulla pancia, slaccio il reggiseno e infilo il viso nel buco del lettino da massaggio che segnala al mio corpo una resa completa. Il piccolo uomo cinese si versa sulle mani l'olio da massaggio - chiaramente johnson e johnson cinese a giudicare dall'odore- e comincia a massaggiarmi con la stessa buona volontà che i lillipuziani possono aver avuto nell'ancorare Gulliver alla sabbia con le funi. Mano a mano che procede con il massaggio sento le sue mani crescere, il mio corpo perde di contorno e definizione e ogni punto della mia pelle si equivale. È solo infatti quando ho un orgasmo che mi rendo conto che le piccole mani del cinese avevano stimolato la mia clitoride - non la spalla o la coscia, con una precisione che denunciava molta esperienza o un intuito fenomenale sul corpo femminile. Diciamo che avevamo saltato molti passaggi nella relazione ma che in quel momento mi aveva reso felice e soddisfatta. 

Il piccolo uomo cinese non parla italiano (forse è questo il successo della nostra istantanea relazione?) e ripete solo "tu molto bellissima". Io arrossisco, mi rivesto, pago i miei quindici euro guardando la donna d'affari cinese per capire se era davvero compreso questo momento d'intimità e poi esco.
Esco con un generico senso di leggerezza, ilarità e stupore. Ma nessun senso di violazione, nessun senso di molestia.

Durante la stessa cena con amici conosciuti da poco un'altra ragazza racconta invece di essere entrata in un centro massaggi e, senza descrivere nello specifico, di aver avuto la crescente sensazione che le incursioni fulminee della mano del massaggiatore - un muscoloso massaggiatore ayurvedico - avessero poco a che vedere con benefici terapeutici della stimolazione dell'osso sacro. Lei si era sentita molestata, violata, assediata, insidiata e tante altre cose che danno un'inspiegabile sensazione di sporcizia interna. Così anche la sua amica che aveva ricevuto un trattamento dallo stesso massaggiatore. Come nello schema classico della molestia nessuna delle due ha fatto nulla per quella specie di paralisi che interviene nella preda e che impedisce non solo di denunciare ma proprio di pronunciare qualsiasi parola. 
Alle volte mi chiedo se sia un fenomeno biologico inventato da madre natura per farci comunque stare zitte e riprodurre la specie. Non lo so.
Mi chiedo se anche la mia generica sensazione di ilare stupore fosse un meccanismo di difesa e protezione del mio molestatore, il piccolo dolce uomo cinese, che non ho mai più rivisto e che ad oggi rimane uno dei pochi uomini in grado di farmi sciogliere di piacere.
Alla cena sono presenti anche dei maschi etero cis che con lei adottano un'espressione simile al cordoglio mentre con me si lanciano in grasse risate e commenti a suggerire che il mio atteggiamento così disinibito e allegro sia frutto del mio essere, tutto sommato, una troia. Lo si dice con totale amicizia, ma il fatto rimane. Se non mi sono sentita violata è solo - forse perché sono un po' zoccola. 

Comincio a pensare che il problema non sono questi maschietti cis divertiti, ma la mia stessa percezione di consenso. L'aver costruito tutta la mia femminilità sul concetto di protezione e difesa. Sull'aver pensato che il consenso sia materia giuridica e non emotiva, biologica, tissutale, corporea, circostanziale e arbitraria. Costretta a pensare che per esercitare in modo saggio il consenso io debba avere una "solida fibra morale" o un certo rispetto per me stessa. Come se scopare in giro, fare l'amore sia solo un atto di abbandono di sé e del proprio corpo. 
Come se il consenso fosse un bottone che premo solo io.

Consenso, come tutte le parole che iniziano con co-, allude a un insieme, a un + di persone, a una collettività. Il consenso è quindi qualcosa che si costruisce insieme, è cum e sentire, sentire insieme, non ha solo a che vedere con me che dico sì o no, tu entri o non entri. 
Ho la sensazione, dovuta forse solo al mio rifiuto del progresso, che nella precipitazione del senso di ogni relazione a una relazione di scambio - io offro questo, tu cosa mi dai - ci siamo persi il vero punto della relazione che è il processo di formazione della relazione. Cioè io da te voglio qualcosa che tu mi dai o non mi dai. Senza dimenticare che proprio il consenso - anzi la formula "mi consenta" usata da un personaggio particolare - è diventato l'emblema dello scambio di favori sesso-potere. 
Il mio obiettivo non è la relazione ma un punto di esaurimento di ogni desiderio. Me la dai o non me la dai. Così anche io, che invece di costruire relazioni in cui le coccole sono il prodotto di uno slancio spontaneo d'amore, prendo i miei soldi e salto i passaggi, compro un massaggio, voglio il risultato finale. 
Anche il mercato, immagino, all'inizio forse era la scusa per gli umani per stare insieme, mentre ora è solo un tramite per arrivare al possesso di un oggetto, tu umano sei l'ostacolo al soddisfacimento del mio desiderio. Perfino quando cerco coccole tu umano, tu webcam girl, tu puttana, tu persona con la tua vita, le tue resistenze, i tuoi problemi e le tue gioie, sei l'ostacolo a quello che voglio io, quel posto vuoto dove io scopo, eiaculo, provo piacere, mi scarico, mi libero. Spostati, per favore, ti devo consumare. 

Consenso:  supino (eh, sì) di consentire, CUM = insieme, e SENTIRE, nel significato metaforico di pensare, sentire. Essere dello stesso sentimento, parere. Aderire, concordare. 




domenica 28 ottobre 2018

fine

Quando comincia la fine?
Comincia con la radice FIND o FID che ha il senso di dividere o fendere, onde varrebbe, il punto della fenditura, della divisione, l'orlo, l'estremità.

Prosegue impietoso l'etimologico, che sembra dirmi ma non vedi che è il:
...Punto che segna il termine nello spazio e nel tempo; Punto di là da quale si cessa. E più largamente parte estrema, ultima. Sarah capito? The end, basta, kaputt, c'est termineé.





Dove comincia la fine? Dove inizia la nostra fine?

Inizia quando dal finestrino ti vedo abbassare lo sguardo sul cellulare e voltarti per andare via senza che il mio treno si sia messo in moto? Lì qualche cellula del mio corpo si sente finire in mezzo al petto, o meglio, si spegne.

Finisce quando ti vengo a trovare a sorpresa nel tuo piccolo paese e tu sorridi e facciamo l'amore fortissimo come se fossi felice di vedermi ma sotto sotto in realtà hai paura di qualcosa che non sai?

Finisce quando invece che mandarmi bacini nei messaggi whatsapp mi mandi beijos portoghesi o besitos spagnoli, nella speranza che deterritorializzando il linguaggio anche la nostra storia perda asilo?

Finisce quando il tempo di silenzio tra un messaggio e un altro, tra una chiamata e l'altra, impercettibilmente si allarga come inavvertita procede la deriva dei continenti (quale placca si stacca per prima? E perché?), tu non dici niente, ma quando motivi il tuo silenzio - di questo, di quello, di non ricordo più - la cosa diventa patetica perché mi sento la maestra a cui porti una giustificazione falsificata e mai davvero richiesta. (Non vuoi scrivermi? Non scrivermi, non hai obblighi, sì certo, io guardo la schermata di whatsapp tutto il giorno ma questa è una mia libera scelta, una pratica dell'ossessione che prescinde dalla tua persona e dalle tue vicissitudini quotidiane, fermo restando che nella mia fantasia stai ovviamente scopando con tutte le femmine della pianura padana).

La fine è quell'ultima scopata? Quella bellissima, di mattina, ancora sconosciuti, ancora nel sogno, i corpi che fanno da soli? Quella che anche se mi hai  detto che insomma questo non può essere l'inizio di una relazione e quindi è necessariamente la fine di qualcosa, la fine rimandata a data da fissare -   non sappiamo che è l'ultima perché pensiamo entrambi che di scopate così con me ne puoi fare quante ne vuoi perché io non riesco mai a dirti di no.

Poi la volta successiva, ti dico di no. Prendo il pallone e lo porto via, fine partita. Inizia la mia fine a sorpresa. Che in questo finirsi, sfinirsi a vicenda sembra di cercare il confine tra un'onda e l'altra e non si sa mai. Piango, ti faccio polvere, provo a gridarti via, quando non ci sei. Sai che una volta piango così tanto che sbavo come una bambina? Mi deformo di pianto.

Quando finisce la fine?

Finisce quando ho ripercorso, pianto e archiviato i ricordi?
Quando la smetto di salire su quella passeggiata a Porto Venere, dove a ogni sosta rubiamo i fichi  - tu dai rami più alti allungando un braccio, io arrampicandomi e tagliandomi - vediamo in un rudere dove entrambi pensiamo che potremmo fare l'amore ma poi possiamo gonfiarci ancora di desiderio, abbiamo tutto il tempo per tornare al rifugio, sequestrarci a vicenda a letto e tu mi fai tremare tutto il corpo. Abbiamo tempo. Anche nel ricordo la sensazione è che ho tempo.

Finisce quando li ho cauterizzati i ricordi? Quando li ho resi leggendari? O quando comincio a vedere le storture, le sbavature di copione, le perdite gialle del ricordo, il tuo sedere che un giorno mi ha ricordato quello di un uomo anziano. Il tuo accento che alcuni giorni mi dava fastidio, mi sembrava quello di un uomo ignorante. Il tuo essere fondamentalmente distratto al nostro miracolo.

Finisce quando smetto di ricordarmi che a quest'ora sei al lavoro e tra un paio d'ore stacchi e mi chiami?

Finisce quando ogni tuo inaspettato messaggio - scorretta invasione di campo - smette di farmi vibrare per giorni come una cazzo di campana tibetana?

Finisce quando so dove tumularci? Sulla parete di marmo in un piccolo incavo con foto bombate e leggermente circondate di un alone avorio, con le date? O ci faccio cremazione, per occupare meno spazio possibile con i nostri perfetti corpi di amanti?

Ma davvero non finisce mai niente, nel frattempo succedono cose che danno proporzione alla fine, come l'apocalisse insegna la fine al tramonto.

Volevo davvero scrivere qualcosa sulla fine di un piccolo imbranato amore, ma poi l'unica fine a cui ho pensato oggi è la fine di una ragazza su un materasso, nuda e imbrattata di sperma dalla vita in giù, sbattuta da diversi uomini che godono - probabilmente annoiati - del suo corpo immobilizzato mentre il suo cervello le manda segnali di rilassamento e sonnolenza, le manda segnali di piacere provocati chimicamente mentre non immagina neanche che quella è la sua fine, che quel giorno non ci aveva davvero pensato che sarebbe stata la fine, non esiste neanche la fine quando hai sedici anni, sembra quasi un'impresa da eroi, la fine. Mentre la fine ti prende per sbaglio, non c'è nessun disegno, nessuna intenzione, non posso credere che ci fosse uno schema divino per una fine così, una vittima che non sa che sta per diventarlo in via definitiva e dei carnefici che non si aspettano di essere carnefici o almeno non nel modo che li attende, semplicemente disinteressati alla cosa.

Insomma questa per me è la fine senza fine, non c'è fine al tuo andartene Desirée.





lunedì 4 giugno 2018

lesbica

Non esiste sul dizionario etimologico. Ma la sua origine è geografica e non stratificata nel tempo per usi o diluizioni di vocali e flessioni di consonanti. Si ritrova sull'isola di Lesbo, nei tìasi, dove le giovani fanciulle ricevevano un'istruzione e probabilmente venivano iniziate ai piacersi sessuali dalle stesse insegnanti, da cui il termine. Ora quell'isola è terra di approdo di disperati dalle terre dell'inferno. E anche per me è stata terra di approdo temporaneo. Non so cosa sia stato il mio lesbismo ma so cosa sono per me le lesbiche. Per me le lesbiche sono creature straordinarie, ondine o sirene mai viste prima con iridi fosforescenti e arti sovrannaturali. Mi ricordo la prima donna di cui mi sono innamorata. Una specie di fenditura luminosa nel tempo, capace di fare cose incredibili: l'ho vista volare come un rapace e saltare come un tirannosauro, sfidare il sole e diventare maschio o femmina in base al riflesso della luna. Non mi venite a dire che le lesbiche sono come gli altri, non è vero: le lesbiche sono creature ultraterrene: sono più intelligenti, leggono il pensiero, sanno riparare i lavandini, si aiutano e sostengono a vicenda sempre, si vestono come cazzo vogliono e sono maestre di intenso piacere perché imparano a conoscere il deliberato piacere di ogni cosa. 
Sull'isola delle lesbiche - e a Milano quest'isola è grande e ben protetta, enorme ma quasi invisibile a chi non la conosce - ho potuto fare tutte le cose che tra gli etero non potevo fare: ho riconosciuto la mia intelligenza e l'ho pettinata e ornata con piume di pavone immortale. Ho ballato come volevo, come se non dovessi sedurre nessuno ma per riscoprire il violento piacere del mio corpo. Ho baciato e toccato e agito con audacia - come un uomo - con corpi morbidi come il mio, ho baciato altre labbra soffici e delicate come le mie. Ho guardato una donna con desiderio, anche ridendo dentro perché mi sembrava comunque una cosa ridicola, come se non ci fosse bisogno poi di tutta questa eccitazione sessuale per comunicare a una donna - a tutte le donne - il mio profondo amore per colei con cui condivido un organo genitale - o un modo di sentire il mondo. 
Forse è per questo che, sebbene mi sia ritornata una gran voglia di cazzo che soddisfo senza indugio e che quindi mi fa salpare dal porto di lesbolandia (senza che tra l'altro molte si siano accorte della mia permanenza), mi sento e forse mi sentirò lesbica ancora a lungo, lesbica come qualcuno che abita un'isola dove ci siamo solo noi che non siamo il completamento di nessuno, lesbica come donna che esplora senza vergogna ogni singolo centimetro di autodeterminazione, in un proprio ecosistema completo e rigoglioso. A me forse non basta una stanza tutta per me, io voglio un'intera isola tutta mia. 

venerdì 27 aprile 2018

Fiore

Mentre sollevi il vaso di ortensie mi accorgo che hai le mani davvero molto piccole. Incredibilmente piccole. È come se non riuscissi a mettere le proporzioni del tuo corpo in relazione alla grandezza del posto che mi occupi nel cuore. (Questo post sarà pieno di parole pericolose e imbarazzanti come fiore, cuore, dolore e amore)  
Decidi di comprare il vaso di ortensie perché, come me, ti ricordano l'infanzia. Nonostante le tue mani incredibilmente piccole sei arrivata come un inatteso pacco amazon mai ordinato. Delle varie ordinazioni finora avevo ricevuto un padre modello standard a cui mancavano sicuro delle viti, una madre 3 per 1 che mi ha fatto da madre, da padre e da figlia, qualche campioncino buonissimo ma troppo caro di sorella qui e là.
Ti mancano dieci euro e li tiro fuori subito e mi fido perché so che ci rivedremo, so che non ti ricorderai di ridarmeli e sarai felice quando ti ricorderò di restituirmi i dieci euro e io non proverò imbarazzo nel chiederteli. Sei un'amica che se la raccontassero nei romanzi sembrerebbe inverosimile. 
Come amica sei l'equivalente del trattamento deluxe, quello con tutto, massaggio, spennellate di polvere d'oro e cacao e olio di argan tiepido, che non scelgo mai tra le offerte groupon, sei praticamente Yale, Harvard e Stanford messe insieme, sei il primo ballo alla Casa Bianca tra Michelle e Obama, sei la meravigliosa sensazione di quando si accende il verde proprio mentre inizi ad attraversare (compreso il sottile brivido di trasgressione che prende iniziando a camminare quando è ancora rosso), sei un doppio arcobaleno che si tuffa nelle nuvole, sei quel gridolino di gioia di una canzone dei Jackson Five quando ballano all'unisono, sei il primo vero caldo di primavera, sei una vertiginosa discesa in bicicletta dalla collina intorno ai sette anni. La prima in cui non si cade. 
Io e il tuo ragazzo ti facciamo notare che forse sei perfino più piccola del tuo grande vaso d'ortensie fucsia e tu ti stai già preoccupando del fatto che la farai morire, perché ti sei convinta di avere il talento di far morire le piante. 
Però la nostra amicizia l'hai fatta germinare e sbocciare, nonostante io mi sia comportata come un'afide pazza spesse volte. Sei l'unica persona che non mi imbarazzo a definire la mia migliore amica a trentatré anni, l'età in cui non si dovrebbero più avere le migliori amiche, eppure non saprei come altro definirti. 
Lo spudorato tacito accordo è che tifiamo l'una per l'altra anche quando è evidente che l'una o l'altra è in pieno torto, ma non ci interessa, la nostra amicizia è tutta sbilanciata dalla nostra parte. Ci siamo anche dette più volte che dobbiamo essere come "i maschi" che si sostengono a vicenda qualsiasi cosa succeda. 
Abbiamo perfino litigato una volta. È stata una cosa strana. Non ero neanche davvero arrabbiata dentro, ma pensavo che fosse necessario a quel punto litigare perché altrimenti la nostra amicizia rischiava di non essere autentica. Ci siamo allontanate per un po' di tempo ma mi sembrava come nei film quando lo sai che due si allontanano e poi ritornano insieme. Non era neanche che avessi lasciato un vuoto in quei giorni in cui abbiamo smesso di sentirci. Non potevi lasciare un vuoto. È come la radiazione cosmica di fondo, quel crepitio che si sente tra le frequenze radio, l'ultimo residuo del suono del big bang, ci sei da sempre e ci sarai fino all'espansione massima del cosmo. Quindi ho dovuto solo ritrovare quella frequenza segreta che per pura fortuna abbiamo beccato un giorno e ricominciare a sentirti e vederti. 
Sei l'amica che riesce a darmi retta nelle stronzate più radicali come quando ti propongo il festival del petting o un documentario sulle infradito giapponesi e non hai bisogno di vedermi felice o soddisfatta o appagata in una relazione per sapere che sono già felice. 
Fiore proviene dalla radice indoeuropea FHLA, con il senso di gonfiare, di traboccare, sbocciare. Mentre ti guardo con il tuo gigante vaso d'ortensia che stai praticamente portando al patibolo,penso che hai soffiato nuovo senso nella mia vita e che un'amicizia come la nostra è un motivo sufficiente per domandarsi, nel cuore della notte, se la vita abbia senso.